Macera della Morte da Ascoli Piceno.
Note tecniche.
Localizzazione: Trisungo (Arquata del Tronto) - Parco
Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga-
Avvicinamento: Ascoli Piceno- Strada Salaria in direzione di
Roma- Acquasanta Terme- Trisungo presso Arquata del Tronto.
Località di Partenza: Trisungo
Dislivello: 1532 m.
Dislivello
complessivo: 1632 m.
Distanza percorsa in Km: 35, 75.
Quota minima partenza: 600 m.
Quota massima raggiunta: 2073 m.
Tempi di percorrenza escluse le soste: sette ore.
In: Solitaria
Tipologia Escursione:
Naturalistica.
Difficoltà: Escursionistica.
Segnavia: Assenti.
Impegno fisico: Alto.
Preparazione tecnica: Media.
Attrezzature: No.
Croce di vetta: No.
Ometto di vetta: Si.
Libro di vetta: No.
Timbro di vetta: No.
Riferimenti:
1)
Cartografici: IGM Marche.
2)
Bibliografici:
3)
Internet:
Periodo consigliato: Tutto l’anno.
Da evitare da farsi in:
Condizioni del sentiero: Ben marcato e non segnato.
Fonti d’acqua: Sporadiche
Consigliati:
Data: mercoledì 06 giugno 2018
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Racconto:
Alla Virgilia della ripartenza per il Friuli ho deciso di
chiudere in bellezza il soggiorno nel sud delle Marche. La meta scelta non è una cima rinomata e
frequentata, ma una particolare, chiamata Macera della Morte, il nome richiama
tristi presagi.
Anche l’avvicinamento sarà diverso dai precedenti, il giorno
anteriore all’escursione ho fatto i biglietti per il pullman di linea che mi
porterà in zona. Ho un determinato tempo per andare e rientrare, nel malaugurato
caso dovessi tardare, dovrei farmi a piedi o in autostop, i quaranta chilometri
che mi separano da Ascoli.
Non è un’escursione alla “Into the Wild”, ma qualcosa alla
lontana gli si avvicina. Il mattino dell’escursione sveglia presto, alle 07:15
devo essere alla stazione dei pullman, arrivo con qualche minuto di anticipo
dopo aver attraversato il mercato nel centro della cittadina. La temperatura del
mattino è frizzantina, il meteo come previsto mette bello. M aspetto di partire
con la classica corriera, ma con sorpresa scopro che il servizio viene
effettuato da un furgone adibito a trasporto passeggeri, la situazione mi
piace.
Appena partito, come è mio solito fare, socializzo subito
con l’autista, scopro che è un mio coetaneo e che vive nel luogo dove mi dovrà
lasciare, cioè Arquata del Tronto.
Il piccolo mezzo di trasporto non viaggia per la strada
principale, ma attraversa tanti piccoli borghi, un po’ come intraprendere un
magico misterioso viaggio. Osservando i volti dei passeggeri e le località
riesco a penetrare lo spirito di questo nobile e antico popolo, sono nella
terra dei piceni, e lo si avverte dalla natura e dalla particolarità dei borghi.
Dal finestrino scorgo la mia meta, sempre più vicina, finché
si apre la bussola e l’amico conducente mi dice:<<Viandante sei arrivato,
buon viaggio!>>
Scendo nella località Trisungo, zaino in spalle, sguaino i
bastoncini e parto per la nuova avventura. Il primo tratto di cammino è
identico a quello fatto per il monte Cumitone. Dal borgo terremotato di Trisungo,
tramite la stradina locale mi dirigo a Spelonga, spero che passi qualcuno a
darmi uno strappo, nemmeno finisco di esprimere il desiderio che odo il rombo
di un’auto che va nella mia direzione.
Al minimo cenno del mio pollice il mezzo si ferma di colpo,
una mano dal finestrino mi indica di salire. Chiedo al conducente se va a
Spelonga, mi risponde di sì; adagio lo zaino sul sedile posteriore ed eccomi a
bordo, così mi risparmio ben quattro chilometri. Saputa la mia meta, il simpatico
conducente mi accompagna fino al bivio dove inizia lo sterrato che porta alla
località di Chino.
Devo risalire uno terreno, percorribile preferibilmente con i
fuoristrada, per via delle continue sconnessioni del manto, che dopo alcuni
chilometri diventa impraticabile per autovetture normali.
Il cielo è velato da leggere nuvole che donano un tocco
pittoresco al paesaggio. Un antico cavallino a dondolo è malamente posto tra i
rifiuti, lo raccolgo, dandogli una posa dignitosa; penso che il bambino che
giocò con esso oggi avrà un’età veneranda o non fa parte più di questo mondo.
Con questo pensiero malinconico proseguo per la meta,
risalendo l’ampia radura fiorita prima di inoltrarmi nel bosco. Stavolta
conosco bene il tragitto, taglio per i prati, scovando in essi un sentiero di
cacciatori. Passo accanto a ruderi di capanne in pietra, metro dopo metro entro
nel sogno, lasciandomi alle spalle il mondo corrente.
La carrareccia attraverso una serie di serpentine penetra
nel bosco, per poi uscire in prossimità della cresta che precede il monte Cumitore.
Una sbarra blocca il proseguo ai mezzi ruotati, passo sotto
la caratteristica e affascinante mole di rocce basaltiche della località Poggio.
Ancora un paio di tornanti e raggiungo il transennato belvedere del monte Cumitore
(1695 m).
Mi fermo a studiare il percorso, la mia meta “Macera della
Morte” appare vicina, dall’alto ben distinguo a occhio nudo le tracce del
tratturo che poi spariscono nella faggeta per poi riapparire nei rilievi
finali. Quel piccolo edificio bianco
sicuramente è il bivacco (Rifugio Pedata), posto a settentrione dell’ante cima.
La cima è caratterizzata da una macchia di neve sita sul versante orientale,
mentre la lunga dorsale prosegue a occidente raggiungendo il Pizzo di Sevo
ancora tinto di neve.
Con la fantasia percorro tutto quello che vedo, ma mi tocca iniziare
il viaggio verso la meta. Tramite una ripida discesa nei prati sottostanti, perdo
rapidamente quota, questo non mi conforta, sapendo che al ritorno, quando sarò
stremato, dovrò risalire la china.
Attraverso i campi inerbiti (passo di Chino 1581 m.), resi
impraticabili dalle piogge e dal passaggio di una nutrita mandria di vacche.
Tra le zolle di fango riesco a farmi strada, guadagnando i pascoli che scompaiono
dentro la fitta faggeta. Mi guardo indietro da dove posso ammirare da un'altra visuale,
la bella sagoma del monte Cumitore, conquistata nelle settimane precedenti.
Dentro la faggeta del Cugnolo procedo leggiadro, il sentiero
è comodo e l’ombra del bosco elargisce frescura, esco allo scoperto nei pressi
del pascolo che precede il bivacco. Mi mantengo alto in quota, intuisco che il
rifugio è posto in basso, lo visiterò al ritorno. Sento la voglia di sognare e
volare, cammino sul filo di cresta della Costa Piangraro, la cima sembra dietro
l’angolo, ma è solo una chimera, c’è sempre qualcosa dietro quello che ho appena
raggiunto.
Una nuvola bruna con la sua nebbia sembra minacciarmi, si trattiene
vicino la cresta, ma non osa avanzare, io proseguo sperando che essa si dissolva
nell’azzurro. Altra cresta e solchi dove la terra è di un colore rosso bruno,
li risalgo mirando all’apice, sperando che sia la cima, ma non lo è. Faticosamente ho raggiunto il crinale (2055
m.) e ora come un funambolo seguo la fugace traccia del viandante.
La crestina si stringe, ma nulla di impressionante per chi è
avvezzo alle montagne friulane, essa è morbida, docile e solitaria.
Mi chiedo a cosa debba il toponimo la montagna, suppongo al
silenzio che regna sovrano, simile a quello della Signora Morte, quando ella ci
conduce, dopo le estreme asperità della vita nell’ultimo viaggio.
Eccomi in vetta (2073 m.) sul punto rivelo pochi sassi, su
di uno è scritto il nome e la quota. Mi copro, fa freddo, provo a mangiare
qualcosa, ma non ho tanto appetito.
Mi godo il silenzio del viandante, del “forestiero nomade”, sempre
alla continua ricerca o nell’eterna fuga. Codesta energia misteriosa spinge le
mie gambe continuamente alla ricerca di nuove mete. I bastoncini piantati sul
prato sommitale, sanno di conquista e solitudine. Ho ripercorso le orme
millenarie, poco sotto la cima staziona il confine del vecchio stato
pontificio, con altre due ore di viaggio avrei raggiunto il Pizzo Sevo, ma sono
stanco e il tempo scorre. Oh, come vorrei camminare all’infinito! Non fermarmi
più, rientrare è come morire, la fine di un sogno, e io voglio vivere! Quassù mi sento un uomo, senza bandiere e
confini, senza dialetti o legami alcuni, privo dell’ipocrisia di chi vuol
apparire quello che non è. Ho camminato da viandante, e nella terra che sottostà
ai solchi degli scarponi porto il vessillo di libertà.
Continua a fare freddo, l’infida nuvola corvina mi consiglia
di rientrare, ripercorro la cresta e stavolta miro al bivacco (1805 m.), poco
appariscente e per nulla ospitale, dove lascio il segno del mio passaggio.
Fuori da esso mi aspetta una mandria di mucche color latte, appaiono sacre, come
comparse lì per desiderio di una divinità; passo in mezzo al loro, notando un
maestoso toro dimezzato di un corno, ma che non ha perso nulla della sua possente
virilità.
A ritroso ripercorro il sentiero dell’andata. Raggiunto il
piccolo borgo di Spelonga mi lascio ammaliare dalle romantiche visioni
bucoliche, la vista dei pollai, i campanili e i gatti da cortile mi riportano
in un mondo che ho visto per la prima volta sull’abecedario.
Ultimi metri di strada prima di arrivare alla fermata dell’autobus,
do uno sguardo all’ora e con gioia rivelo che ho ancora un’ora di permanenza in
zona; ne approfitto per entrare nel piccolo bar e ordinare un panino con dell’ottimo
prosciutto locale, accompagnato naturalmente da una fresca Coca Cola in
bottiglia di vetro. Delizia e goduria, la fame fa sembrare tutto buono, ma il
panino merita una lode speciale.
Stavolta il pullman che mi riporta ad Ascoli è di dimensioni
ragguardevoli, mi siedo dietro l’autista, poggio lo zaino accanto, e mi godo il
rientro. Il conducente è un tipo arzillo, lungo il percorso di rientro si allieta
a stuzzicare una giovane donna posta sulla fila di fronte alla mia. A una delle
fermate sale una simpatica signora, e l’amico ci prova pure con questa.
Sorrido, le conosce tutte, e se non bastasse si distrae guardando dal
finestrino le esponenti del gentil sesso che passeggiano nella città. Il
simpatico conducente, contravvenendo amichevolmente alle regole, mi lascia in
una fermata non prevista che mi è più comoda, lo ringrazio. Prima di rientrare
all’alloggio, ho modo di visitare una gelateria, e ordinare un gustoso cono al
limone. Rinfrescando il palato rientro alla base, con una cima conquistata e una
nuova storia da raccontare.
Il Forestiero Nomade.
Malfa.
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