Monte Terza
Media 2455 m. da Campolongo.
Note
tecniche.
Localizzazione:
Alpi Orientali-Alpi Carniche- Gruppo Terze Clap.
Avvicinamento:
Spilimbergo- Pinzano-Cornino-Cavasso-Tolmezzo-Villa Santina-
Ovaro-Rigolato-Sappada-Campolongo di Cadore (BL) -Frazione di Pomarè.
Dislivello: 1466
m.
Dislivello
complessivo: 1624 m.
Distanza
percorsa in Km: 18,5 km.
Quota minima
partenza: 989 m.
Quota
massima raggiunta: 2455 m.
Tempi di
percorrenza. 7 ore senza soste.
In: solitaria.
Tipologia Escursione: Selvaggia-Alpinistica.
Difficoltà: Escursionisti Esperti con esperienze minime
alpinistiche- Passaggi di I e II°, tratti attrezzati con cavi, altri con chiodi
fissi.
Segnavia:
CAI 313- 310-Bolli rossi sbiaditi, radi ometti.
Attrezzature:
Si
Croce di
vetta: Si
Libro di
vetta: Si
Timbro di
vetta: No.
Cartografia
consigliata:
Periodo
consigliato: giugno-settembre
Condizioni
del sentiero: Il tratto CAI fino al passo della Digola ben segnato, il sentiero
fino alla cima segnato con radi bolli rossi e ometti.
Fonti
d’acqua: Ultima presso la Tabia Digola.
Data: 17
giugno 2017.
Il
“Forestiero Nomade”
Malfa
Relazione:
L’escursione sulla cresta del monte Ferro mi
ha lasciato l’amaro in bocca, arrivare quasi alla meta e per pochi metri non
raggiungerla è deleterio, tutto alla fine sa di incompiuto. Scendendo dai laghi
d’Olbe ho dato uno sguardo alle belle catene montuose site a sud della cittadina
turistica, l’occhietto curioso si è posato sulle Terze: prima sulla piccola, e
successivamente sulle altre due. Sono rientrato a casa con il chiodo fisso
delle terze, senza sapere quale delle due, tra le minori, quale avrei fatto per
il prossimo weekend. Durante la settimana le studio entrambe, la scelta sembra
cadere sulla Media, su internet visiono i video e le foto, non trovo molte
informazioni a riguardo. Decido di scalare la Terza media da Campolongo di
Cadore, riservandomi la Terza Piccola come piano B. Lo zaino per l’escursione è
più capiente del solito. Oltre al normale bagaglio porto al seguito un cordino
di trenta metri con attrezzatura per fare una doppia in calata e il kit
completo di autoassicurazione. Per gli “Esperti” apparirò esagerato, preferisco
portarmi la casa al seguito piuttosto che esclamare:<<…azzo, lo sapevo! ho
lasciato in auto questo o quell’altro.>>. La notte dormo come un ghiro,
mi alzo riposato, fresco, procedo per la preparazione e la vestizione. Con
l’armamentario al seguito mi catapulto per la strada, in direzione Campolongo.
Lungo il tragitto, come spesso mi succede d’estate, attraverso tutta la Carnia,
e più la conosco e più l’amo. Presso il lago di Cavasso Carnico mi fermo a
fotografare il cielo, anche un altro automobilista ha avuto la mia stessa idea.
I colori
delicati dell’aurora tingono di rosa il cielo, creando con le nuvole degli strani
disegni, tutto comincia a somigliare a un sogno e in esso entro. La neve è
totalmente scomparsa dalle cime, ed esse esercitano un fortissimo richiamo per
l’escursionista. Vorrei avere il dono dell’ubiquità, essere presente su
tutte le cime nello stesso tempo. Devo concentrarmi sulla meta di oggi, da Sappada
la vedo, in mezzo alle due sorelline, bella, dalle bianche rocce, il manto
verde e il cielo come sfondo le danno un aspetto regale. La statale mi porta
alla cittadina di Campolongo, attraversando il Piave, fiume sacro alla Patria. Una
stradina si inoltra nella valle, dopo le ultime case della frazione di Pomarè scorgo
sulla destra uno spiazzo, di fronte inizia (segnalato da tabella) il sentiero
per forcella Digola (quota 989 m). Zaino
in spalle e sogni al seguito, parto! Percorsi pochi metri di carrareccia mi
accorgo di aver lasciato un litro d’acqua in auto, cavolo, equivale a
suicidarsi. Ridiscendo, e recupero il vitale liquido. Il sentiero CAI è
numerato 313, inizia con una carrareccia, il primo tratto di percorso è ripido
e panoramico, si inoltra nel pendio boschivo (abeti bianchi), con monotono andamento.
L’ampia mulattiera sembra un grande trincerone, non praticabile per carri, ma
scomodo per chi va a piedi, ai suoi margini, si intravede una labile traccia,
sicuramente creata dai numerosi escursionisti, stufi di ravanare sulle
pietraie. Unica attrazione è la bella casera di Tabia Ronco del Popo, posta a
1394 metri di quota, il sole filtra con i suoi raggi e lo sguardo vola alle
lontane creste del monte Rinaldo. Rientro nell’ombroso bosco tra i silenti
abeti dritti come bastoni di scopa, l’unica consolazione è la frescura che emanano
insieme all’amabile odore di resina che inebria l’aria. Dopo aver ravanato nella
noia più totale e aver percorso quasi seicento metri di dislivello, il
paesaggio cambia radicalmente. Alla mia destra noto un bel gruppo montuoso, le
più vicine crode di Mezzodì e le bellissime torri del monte Cornon; ne rimango incantato,
desidero il contatto con la dolomia. Quegli spuntoni protesi verso il cielo
sono una calamita per la mia mente. La carrareccia si fa spazio nel vallone
posto tra le due Terze. Alla mia destra scorgo i torrioni dolomitici della
Terza Media, mentre la Terza piccola rimane ancora nascosta dietro gli abeti
rossi. Lasciata la diramazione per la Val Frison (a destra sentiero 312)
proseguo a sinistra seguendo le indicazioni per casera Digola, dopo un tornante
la raggiungo. Due isolate e annoiate mucche sono poste di guardia all’edificio,
le altre della mandria sono in riunione presso una fontana ricavata da un
tronco d’albero. Un cartello con le indicazioni per il bivacco Franco Marta (sent.
310) mi conferma che sono sulla strada giusta. Le simpatiche cornute (vacche)
mi ostruiscono il passo, ma posano ben volentieri. Aggiro l’ostacolo risalendo
la piccola recinzione, così mi ritrovo in un ampio campo inerbito con radi massi.
Su un abete è posta una targhetta con i colori CAI, anche se la freccia non
indica nessuna direzione, cerco intorno i segni del calpestio, niente, le
tracce spariscono nell’erba. Salgo per prati fino alla forcella, ridiscendo e
giro intorno al segno CAI, finché su un masso leggo una scritta sbiadita. Mi
fermo, mi guardo intorno, le mucche sono omertose e non mi sono d’aiuto, tra la
fila di conifere che delimitano il prato scorgo un passaggio, mi avvicino:
<<Ma va fa…!>> Insomma, impreco, ho trovato finalmente la traccia,
che dopo pochi metri abbandona i radi larici per risalire un esiguo canalone
detritico (posto in direzione sud della carrareccia). E’ inutile scrivere che
si tratta di un sentiero per esperti, secondo me è un sentiero E.E.C.
(Escursionisti Esperti Conoscitori della zona). Pazienza, si va avanti, risalgo
il canalone detritico, sporadici bolli mi invitano a virare a occidente
percorrendo le pendici settentrionali della Terza Media. Superato un primo
canalone, rientro per pochi metri tra i mughi e larici per addentrarmi dentro
un grande e incassato canalone detritico, posto tra le dirupate pareti
occidentali del monte. I bolli rossi e gli sparuti segni CAI mi guidano tra le
rocce fino all’inerbita forcella posta a 2090 metri di quota (masso con
indicazioni per la vetta e per il bivacco Franco Marta). Guardando i dati sul
GPS leggo che ho percorso già 1100 metri di dislivello e sono fresco come una
rosa, malgrado lo zaino sia pesante. Durante la salita del canalone ho pensato
dove avrei potuto lasciare il pesante fardello, ho deciso di lasciarlo presso
la forcella, nascosto dietro un masso. Mi appronto per la vetta estraendo la
sacca dallo zaino, e mettendo dentro di essa corda e lo stretto indispensabile.
Indosso fin da subito l’imbrago, agganciando ad esso il casco. Sono pronto,
lascio dietro il masso lo zaino a godersi il panorama e continuo per la meta.
Il primo tratto è dolce, il sentierino risale tra zolle erbose e roccette il
versante occidentale del monte; alcune sculture di dolomia sono spettacolari,
soprattutto una sembra messa lì dal signore degli inferi. Ci passo sotto, l’adoro
come se la roccia dalla fantasiosa forma fosse un totem. Esili sentieri e
piccole cenge mi portato nel tratto finale, dove il verde prato si inchina alla
bianca montagna. A primo acchito non sembra così difficile, un esile traccia
percorre la base della placca, dominata dalle frastagliate e aguzze guglie. Ma
superato il piano inclinato mi ritrovo un grande masso a ostruirmi il passo. Dei
segni mi indicano di salire sulla cresta del canalino. Abbandono uno dei due
bastoncini telescopici e aggiro per passaggi di primo grado a sinistra il
masso, (al ritorno scopro che è meno avventuroso aggirarlo alla sua destra) portandomi
alla base della grande placca. Noto alcuni chiodi fissi, con un passaggio di
primo grado salgo sulla placca, osservo i radi segni rossi, con cautela
seguendo un’immaginaria diagonale mi spingo verso la crestina che si aggetta su
un canalone. Nel frattempo odo delle voci provenire dal basso, due giovani risalgono
la china, Luca e Giovanna (provenienti dal sentiero 313 con partenza da
Sappada). Rallento il passo, sosto presso la crestina, i ragazzi mi
raggiungono, ci presentiamo: Luca è stato mio maestro di roccia del corso che
ho frequentato dieci anni or sono, si ricorda di me per via di una caricatura
che ho fatto al presidente del C.A.I di Spilimbergo, Giovanna è la sua amica. I
giovani si destreggiano sulla roccia con tale disinvoltura da sembrare angeli
che volano. Do la precedenza a loro, e seguendoli risalgo lo stretto canalino che
si ferma nell’unico ostacolo degno di rilievo di tutta l’escursione. Un grosso
masso ostruisce la parte finale del corridoio detritico, costringendo gli
escursionisti a ricorrere al cavo fisso posto sulla verticale parete destra, lunga
circa 6 metri. Luca, con un’ampia apertura di gambe (di slancio) supera
l’ostacolo, Giovanna lo segue a ruota, e io? Il vecio si ferma sotto la
paretina con la bocca aperta, come se fosse la prima volta che ne vedo una.
Insomma, ci metto un bel po’, usando più la forza delle braccia e gambe che
cervello, ma alla fine grazie alla sapiente guida di Luca, supero l’ostacolo.
Mi ritrovo sul ripido prato sommitale, poco sotto la cresta. L’adrenalina accumulata
nel salto mi ha tolto energie, loro mi precedono, io mi attardo recuperando forza
e dinamismo. Le balze erbose mi portano al tratto più affascinante
dell’escursione, mentre Luca fotografa e Giovanna raggiunge la cima, io mi
diverto a salire le roccette, portandomi a filo di cresta. Wow! Che spettacolo!
La cresta che collega le due Terze, la Media alla Grande è di una bellezza
inverosimile, ma non posso dilungarmi, mi manca l’ultimo tratto prima della
cima. Le roccette mi portano ad attraversare la fenditura di un grosso masso,
devo entrarci di taglio tirando indietro il ventre, come quell’istante quando
sulla spiaggia passa una bella ragazza e si fischietta indifferentemente,
simulando doti fisiche di cui non si è dotati. Lo spacco è profondo più di un
metro, equivale a una prova costume, si corre il rischio di rimanere dentro
incastrati. Dopo il supplizio c’è un’altra prova da superare, l’ultima, la
decisiva: un cavo in metallo all’uscita dell’intaglio, che percorre l’affilata
e super esposta crestina. Mi aggancio con i moschettoni al cavo, finché attraversata
la cresta (l’ultimo tratto quasi in ginocchio) raggiungo la base della vetta, ovvero
un ripido ed esposto pendio, tra zolle e roccette che mi porta su, alla piccola
croce di legno. Lì, trovo Luca, che imitando il Dio apollo mostra la sua
muscolatura, mentre Giovanna è intenta a mandare alla zietta la foto della cima
con un sms:<< Scusa zia, non sono a “Città Fiera”, ma sulla Terza Media.
Non dire niente a mamma, mi raccomando!>> Beh, ho fantasticato, ma questa
Giovanna è tosta, e Luca non di meno. Non so se la mia autostima è accresciuta
o diminuita. Andare in montagna in un luogo selvaggio e ritrovarsi con dei
giovani Nives Meroi e Romano Benet non è da tutti. È stato bello incontrarli,
chiedo cortesemente una foto di vetta, stavolta niente autoscatto, e dopo aver
ammirato l’immensità del paesaggio, lascio il sito e i giovani a godersi la cima.
Li saluto e mi preparo per il rientro. Stranamente la discesa si rivela più
facile di quanto immaginassi. In beata
solitudine vado sicuro, supero subito la prova costume passando dentro
l’intaglio (avrò perso due chili sulla crestina esposta), e arrivato al salto,
lo supero con facilità, ricordandomi le nozioni basi del corso di roccia (cioè di
come sfruttare bene gli appigli e gli appoggi) mi calo con nonchalance. La
stessa serenità e agilità la mantengo durante la discesa sulla placca, e così
senza patemi raggiungo la fine del tratto roccioso. Recuperati i bastoncini
telescopici, ripasso sotto la cuspide rocciosa, ora tutto è più semplice. Così fischiettando e baciato dal sole
raggiungo il masso con le indicazioni dove ho lasciato lo zaino. Mi ricompongo,
dispongo gli oggetti negli appositi spazi, portandomi successivamente sul
margine superiore del canalone. Mi siedo su un fazzoletto d’erba ad ammirare la
bellissima mole della Terza Piccola. Estraggo dallo zaino i viveri, divorando
le cibarie con bramosa voracità. Il cibo inspiegabilmente dopo la fatica
acquista più sapore. Un venticello mi delizia, sono in canotta, e mi faccio
cullare dal contrasto che si crea tra i raggi caldi del sole e la corrente che
ventila la forcella. Sono felice? Si, lo sono! Trascorro un’ora di relax,
ammirando questo paradiso. I ragazzi nel frattempo mi raggiungono, ci salutiamo,
io continuo ancora per un po’ la sosta. Ripreso il cammino, con calma scendo
dal canalone e raggiungo la malga sottostante, le mucche sono svanite, saranno
rintanate dentro il bosco. Presso la casera Digola, mentre sono intento a
sistemare l’allacciatura degli scarponi vengo raggiunto da una simpatica coppia
di escursionisti. Scambio veloce di battute, per poi riprendere il cammino
verso l’auto. Del ritorno e del sentiero tedioso non ricordo nulla, per la noia
ho rimosso tutto. Dopo circa un’ora raggiungo la frazione di Pomarè. Wow!
Bella, bella escursione, osservo l’intenso azzurro del cielo, sto vivendo un
sogno. Sistemato il materiale, e recuperato un aspetto decente mi avvio per il
rientro alla maison. Lungo la strada tutto mi appare meraviglioso: i volti
della gente, i negozi, le cime; un puntino rombante giallo mi si avvicina,
superandomi a sinistra, sul retro del bolide ammiro il marchio del cavallino.
Pochi tornanti dopo, presso un curvone la stessa fuoriserie è ferma, il
conducente all’esterno dell’abitacolo indossa una maglietta dello stesso colore
dell’auto e del sole. Accendo l’autoradio, una musica ridondante “disco music”
riempie di suono l’abitacolo, tengo i finestrini abbassati, il vento mi pettina
i capelli. Il cielo azzurro e il sole mi inebriano, il ritmo ipnotico della
musica accompagna queste immagini, osservo la bella gente carnica indaffararsi nelle
operazioni del quotidiano. Dopo Ovaro la stradina si restringe, improvvisamente
si crea una fila di automobili. Tutto si ferma, in un irreale silenzio, lungo
una frazione che precede un’orda barbarica che mi riporta ai primordi della
civiltà. Dal finestrino dell’auto vedo transitare in senso contrario degli
asini, un intenso belare annuncia un esercito infinito di pecore preceduto dal
suo condottiero e dai fedeli cani. Essi avanzano, incontrastati verso
occidente, passano, ti sfiorano, condotti verso un’ignota meta. Il pastore è
alto, bello, un uomo di mezza età, brizzolato con barbetta, occhi azzurri, è il
mio ritratto. Non oso crederci, ma sto vivendo contemporaneamente futuro e
passato, ci salutiamo specchiandoci l’uno nell’altro, mentre il suo invincibile
esercito marcia inesorabilmente verso nuove terre. Con queste immagini termina
la mia avventurosa giornata, intrisa di magia fin dall’aurora. Raggiungo casa,
in estasi, e con un sogno da raccontare.
Malfa
“Forestiero Nomade”
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