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domenica 23 ottobre 2022

Cimon del Pradut.

Cimon del Pradut.

Note tecniche.

Localizzazione: Dolomiti Friulane (Prealpi carniche)

Avvicinamento: Montereale Valcellina-Barcis-Claut -seguire le indicazioni per Lesis  , ampio parcheggio a pagamento subito dopo il ponticello di Lesis

Dislivello: 1050 m.

 Dislivello complessivo: 1050 m.

Distanza percorsa in Km: 12 km.

Quota minima partenza: 644 m.

Quota massima raggiunta: 1743 m.

Tempi di percorrenza. 4,5 ore.

 In: Solitaria.

 Tipologia Escursione: escursionistica -naturalistica- paesaggistica

Difficoltà: E.E.

Segnavia:  CAI 960 A- traccia di camoscio

Attrezzature: No.

Ometto di vetta. si

Croce di vetta: no.

Libro di vetta: Si, cassetta metallica.

Timbro di vetta: No.

Riferimenti:

Consigliati:

 

Periodo consigliato: 

 

Da evitare da farsi in:

 

Dedicata a:  chi ama

 

Condizioni del sentiero:

 



Cartografici: IGM Friuli – Tabacco
2) Bibliografici:
3) Internet: 

Data dell’escursione: martedì 18 ottobre 2022

 

Data di pubblicazione della relazione: Sabato 22 ottobre 2022

 

Il “Forestiero Nomade”
Malfa

A un mese dall’ultima ascesa al regno della Casera Pradut rieccomi a ripercorrere il sentiero 960 A, con partenza da Lesis, la piccola frazione a oriente di Claut.

Claut e i suoi monti fanno sono una località che amo particolarmente. L’escursione del monte Cimone del Pradut è un’idea nata durante l’escursione sul monte Colon. Il sentiero selvaggio che diparte da casera Pradut ne aggira il versante occidentale fino a conquistare la sella della Forchia Bassa, e dalla stessa, durante una pausa, ho scoperto la selvaggia cima, ideandone allora l’odierna salita.

Il vantaggio di andare in escursione durante  la settimana è quello di trovarsi in perfetta e sublime solitudine. Giungo a Lesis, e superato il ponticello alpino sul torrente Cellina ( a ottobre non si paga il pedaggio),  lascio l’auto nell’ampio spazio adibito a parcheggio. La temperatura è effervescente, direi primaverile. Una volta approntatomi con l’equipaggiamento, parto.

Il  sentiero lo conosco a memoria,  esso diparte proprio pochi metri dopo. L’ambiente è fantastico, oltre le sponde del torrente, a occidente, posso ammirare la mole del monte Chiampon, asceso questo inverno, ero anche allora in perfetta solitudine, e naturalmente ne ho gioito immensamente.

Alcune montagne vanno affrontate in solitudine, esse alla vista del viandante, come se perdessero la timidezza, si schiudono, svelandogli i più intimi segreti.

Il sentiero che percorro a causa della brina notturna è tanto scivoloso. Quello che noto rispetto al mese scorso è la numerosa presenza di fettucce biancorosse che guidano l’itinerario. Sono troppe e vistose, evidentemente si deve svolgere una qualche competizione sportiva, sono così evidenti da essere notate anche da un cieco.

La giornata è perfetta, l’ideale per sognare. Il cielo terso  è di un intenso turchese, e mentre cammino, mi ripasso i nomi delle elevazioni che cingono la Val Settimana. Il cammino fluisce veloce, e non mi par vero già di avvistare in alto gli edifici della Casera di Pradut.

Con somma sorpresa, constato, che il remoto sentiero è stato liberato del tutto dagli schianti, davvero lodevole il lavoro dei volontari che hanno reso delizioso l’itinerario. Una volta che ho raggiunto il prato che precede il rifugio, apro lo sguardo e il cuore al magnifico paesaggio che dai monti di Claut si libra fino al vicino Veneto. È magnifico compiere un volo d’uccello  immaginario sulle onorevoli vette, Duranno, Cima dei Preti, Col Nudo per citarne alcune…

Mi avvicino al rifugio con passo flebile, c’è qualcuno all’interno, i panni stesi al sole lo stanno a testimoniare. Mi siedo su un masso, e consumo la mia dose energetica: due uova sode, un pizzico di sale e un succo di frutta.

Il Cimon del Pradut mi è di fronte, esso aspetta che io finisca la pausa e indossi lo zaino per rivelarsi. Una volta pronto riparto. Il sentiero ha inizio alle spalle di casera Pradut, un dolce pendio mi conduce al fitto bosco. Appena raggiungo il crinale scopro l’inequivocabile traccia che segna la dorsale del monte, la stessa, protetta da file di aghiformi, mantiene il suo andamento ripido e lineare. Non avrei mai immaginato che il cammino verso la vetta fosse così agevole. Un’insegna con il nome del monte è inchiodata ad un albero e mi consiglia di seguirne la direzione, ed è quello che faccio. Mantengo costante il passo, sono più di trecento i metri di dislivello che separano la vetta dal rifugio.  Non avverto fatica, anzi, la curiosità di scoprire come sarà la cima allevia gli sforzi. L’alta vegetazione degli arbusti lascia il passo a quella d’altura, inizio a scorgere il cielo e il paesaggio circostante. La cresta a volte è ampia e raramente si dirama. In un passaggio stretto  e leggermente esposto noto un enorme larice, passando lo sfioro, dedicherò ad esso più tempo in discesa. La traccia è chiara, e mi pare di essere in prossimità della sommità. Sento l’emozione del momento,  pochi metri ancora ed eccomi in vista di un piccolo ometto di pietra sormontato da un ramo secco, fatta! Cimon del Pradut è conquistato, e ne sono felice. Ho raggiunto la vetta goniometrica, quella segnata quota 1743 m. molto ampia e solare, mentre la quota più alta, 1769 metri, è preceduta da un enorme salto, ed è coperta da una fitta vegetazione. Per oggi mi ritengo soddisfatto e non mi va di cacciarmi nei guai, quindi, contento della conquista, vengo ripagato dallo splendido paesaggio. Manca ancora poco al meriggio, e ho ancora tantissimo tempo da dedicarmi.

Scopro  accanto all’ometto di vetta una cassettina in metallo, dove all’interno è serbato un quaderno a righe inutilizzabile perché fradicio d’acqua e la stessa biro in dotazione è fuori uso. Provvedo immediatamente a sostituire il tutto, con un libretto e una biro nuovi di zecca, e con un astuccio in plastica color giallo della Nestlé, infine  proteggo il contenuto in una busta sempre di plastica e lo chiudo perfettamente  all’interno della cassetta metallica. Non sono l’unico che fa il crocerossino dei libri di vetta, per me è una missione. Mi rendo conto che una penna e un contenitore per alcuni sono “un peso insostenibile”, ma per me sono un piacere e anche un dovere.

La montagna per il sottoscritto è anche un mutuo soccorso, bisogna lodare e proseguire il lavoro altrui.

Soddisfatto del lavoro, e dopo aver annotato il mio passaggio e fatto la foto per i posteri, mi concedo a due delle mie grandi passioni, la lettura e il disegno.

Dopo aver iniziato per l’ennesima volta “ Cent’anni di Solitudine” di Gabriel Garcìa Màrquez ( prima o poi lo finirò di leggere), estraggo dallo zaino il mio taccuino con le matite, disegnando il volto idealizzato della dea che amo più delle altre, la fantastica Artemide.

In vetta sto bene. Fermate il tempo non voglio scendere, piuttosto, costruirei un capanno e ci vivrei.

A sud ammiro il profilo del Ressetum e il Colon con la magnifica cresta, mentre tutto intorno gravita il paradiso. Le vette che contemplo sono infinite e non riesco a numerarle, alcune mi sono sconosciute. È durissima l’ardua impresa di alzarmi e rientrare, ma debbo, e a valle tengo ancora casa e famiglia, e i pelosi che mi aspettano. Prima di lasciare la vetta do un ultimo sguardo all’ometto, poi mi giro tristemente, come se fossi in una stazione ferroviaria in attesa di partire. Provo sempre questo tipo di malinconia ogni volta che lascio una vetta, è come lasciare una donna che si ama senza aver mai avuto screzi, è un dolore lancinante, una fitta al cuore che solo chi ama la montagna può comprendere.

Durante la discesa , rivedo l’enorme larice e vengo preso da un’improvvisa sonnolenza, e visto che è ancora presto ,decido di togliere lo zaino, adagiandolo alla base dell’albero per adoperarlo come cuscino; mi bastano pochi attimi per essere rapito da Morfeo, e trapassare dolcemente dal mondo empirico a quello onirico.

Durante il sogno mi trovo all’esterno di una baita, e osservo due ragazzi giocare fuori da essa. Ne descrivo l’aspetto: uno è biondino, il più allegro, molto vivace e solare, lo chiamo Sergio,  mentre l’altro amico, moro di aspetto, lo chiamo Mario, egli è introverso, taciturno, e riflessivo. I due sembrano agli antipodi, ma forse per questo sono amici, in un certo senso si completano. La passione che li lega è la mia stessa, la montagna. Sergio ama andare in giro nelle prime ore dell’alba, per contemplare il sorgere del sole, correre per i prati, e arrampicarsi sugli alberi; sempre pronto a fare scherzi all’amico. Mario invece predilige le ore del crepuscolo, il sole che lascia il cielo, tingendolo di rosso fuoco, il silenzio della notte e i boschi fitti di mistero.  Spesso l’uno raccontava all’altro le emozioni vissute, finché un giorno decisero di vivere un intero ciclo di avventure assieme. Si svegliarono prima dell’albeggiare, per assistere al nascere del sole presso un cocuzzolo proteso sulle cime circostanti. Durante l’ascesa della palla di fuoco si abbracciarono, rapiti dall’intensa emozione.  Trascorsero il mattino a seguire le acque dei ruscelli lungo i suoi corsi, e felici come caprioli correvano per i prati a rincorrere le farfalle e giocare con i grilli. Il cinguettio costante degli uccelli fu la loro colonna sonora, sempre osservati dall’alto dal meraviglioso volteggio della solitaria aquila. Dopo la merenda, nel primo meriggio, decisero di avventurarsi in alto, fino alla rupe, ma per raggiungerla dovevano attraversare un fitto bosco misto di faggi e aghiformi. Era autunno, e il colore rosso dei faggi contrastava con l’eterno verde degli abeti, mentre in alto i regali larici si erano tinti d’oro. Superata la casera Pradut iniziarono ad ascendere l’omonimo monte, ma il meteo stava per cambiare. Delle minacciose nubi sbucate improvvisamente all’orizzonte minacciavano bufera. I ragazzi rapiti dall’avventura non furono avveduti, finché il primo scroscio d’acqua che preannuncia l’inevitabile li trovò impreparati in quota. Tuoni e fulmini squarciavano il cielo che improvvisamente si rabbuiò. Mario ebbe uno strano presagio e invitò Sergio a cercare riparo verso un antro, ma il crinale si rivelò crudele. Ad un tratto uno strano silenzio, cupo e tenebroso, irruppe sulla scena, e nel medesimo istante un suono stridente squarciò il cielo  finché una saetta si abbatté sui due amici che nel frattempo impauriti stavano abbracciati. Istintivamente e nel medesimo istante Mario coprì con il proprio corpo l’amico, rimanendo esposto alla furia della saetta, e il gesto salvò la vita a Sergio. La bufera passò velocemente e con essa cessò la pioggia, e sul terreno rimase il corpo inerme di Mario. Come per magia l’energia vitale lasciava il corpo dello sfortunato per fluire in quello di Sergio. L’amico rimasto in vita adagiò il corpo dello sfortunato su un masso, un ultimo abbraccio  e piangendo corse giù dal monte, urlando disperatamente prima di svanire nella selva…

Ho immaginato che egli, come un viandante senza meta, andasse in giro per monti alla ricerca di un nuovo amico  che somigliasse a Mario, per condividere la passione per la montagna, cosciente che lo spirito dell’amico ora alberga nel suo. La dea Artemide commossa nell’assistere all’episodio piantò un seme di larice sul luogo dove giaceva Mario. Il destino  beffardo volle che anni dopo un fulmine si abbatté sullo stesso larice, spaccandolo in due tronchi con la medesima radice. Un tronco radioso esposto a sud con i rami protesi al sorgere del sole, mentre l’altro , quello arso dal fulmine, si chinò a occidente orientandosi al crepuscolo del sole. Due larici in simbiosi, uno a catturare la luce e irradiare i rami dorati nel cielo, mentre l’altro a catturare l’umidità per mantenere vivo il primo. Notte e giorno, vita e morte, l’eterno dualismo del divenire…

Mi sveglio dal sogno e mi ritrovo ai piedi del larice, stavolta  lo osservo meglio. È lo stesso albero del sogno, una parte è viva, e i rami sono colmi  di aghi dorati che luccicano nel cielo azzurro, mentre l’altro fusto è nero, carbonizzato e con i rami anneriti protesi verso l’ombra. Mentre abbraccio entrambi qualcosa mi colpisce e attrae nel lato oscuro, qualcosa che luccica come se fosse sangue. La sfioro, è la calda resina che pulsa e profuma. Il larice vive in entrambi i tronchi e quello proteso verso il sole è Sergio, mentre Mario, la parte silente è quella oscura, che con la sua linfa tiene in vita il fraterno amico. Li stringo entrambi, mi commuovo, non pensavo oggi di vivere una storia simile. Sento il cuore di Mario battere, e lo spirito di Sergio gioire. È meraviglioso cingere il larice, e sento che il gesto è corrisposto. Indosso lo zaino, sono rapito e frastornato, decido di rientrare, ma prima salgo su un dosso posto a pochi metri, per ammirare in tutta la sua magnificenza il larice, e voltandogli le spalle inizio la discesa. Il sogno e la realtà mi hanno sconvolto. Mi chiedo  cosa sia l’amore. Amore è dare,  e donare la propria vita per un simile è la massima espressione d’amore che ci sia. Una lacrima solca il mio volto mentre mi avvio verso la casera Pradut…

Pochi metri ancora e raggiungo il rifugio, ho fame. Ho ancora addosso l’odore della calda resina del larice, il magnifico sogno è stata una magica realtà. Presso un masso bianco e lucente trovo il luogo ideale per consumare il pasto. Pane, mortadella e un buon rosso (Nero d’Avola), pranzo degno di Dionisio, e mentre mi sfamo, scruto sulla mappa ripassando le cime. Cornaget, Caserine sono alle mie spalle e altre ancora ne ammiro, mentre dall’alto osservo la magica valle che scema a Cimolais. Questa visione è un autentico paradiso. Riprendo il cammino con il mio placido passo sino al parcheggio, che trovo brulicante di escursionisti.

È stata una felice giornata con una magica avventura, e anche oggi ho sognato a occhi aperti…

Il Forestiero Nomade.

Malfa.

 

 






































































 

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