Cimon del Pradut.
Note tecniche.
Localizzazione: Dolomiti
Friulane (Prealpi carniche)
Avvicinamento:
Montereale Valcellina-Barcis-Claut -seguire le indicazioni per Lesis , ampio parcheggio a pagamento subito dopo il
ponticello di Lesis
Dislivello: 1050 m.
Dislivello complessivo: 1050 m.
Distanza percorsa in
Km: 12 km.
Quota minima partenza:
644 m.
Quota massima
raggiunta: 1743 m.
Tempi di percorrenza. 4,5
ore.
In: Solitaria.
Tipologia Escursione: escursionistica
-naturalistica- paesaggistica
Difficoltà: E.E.
Segnavia: CAI 960 A- traccia di camoscio
Attrezzature: No.
Ometto di vetta. si
Croce di vetta: no.
Libro di vetta: Si, cassetta
metallica.
Timbro di vetta: No.
Riferimenti:
Consigliati:
Periodo
consigliato:
Da evitare da farsi
in:
Dedicata a: chi ama
Condizioni del
sentiero:
Cartografici: IGM
Friuli – Tabacco
2) Bibliografici:
3) Internet:
Data dell’escursione: martedì
18 ottobre 2022
Data di pubblicazione
della relazione: Sabato 22 ottobre 2022
A un mese dall’ultima
ascesa al regno della Casera Pradut rieccomi a ripercorrere il sentiero 960 A, con
partenza da Lesis, la piccola frazione a oriente di Claut.
Claut e i suoi monti
fanno sono una località che amo particolarmente. L’escursione del monte Cimone
del Pradut è un’idea nata durante l’escursione sul monte Colon. Il sentiero
selvaggio che diparte da casera Pradut ne aggira il versante occidentale fino a
conquistare la sella della Forchia Bassa, e dalla stessa, durante una pausa, ho
scoperto la selvaggia cima, ideandone allora l’odierna salita.
Il vantaggio di andare
in escursione durante la settimana è quello
di trovarsi in perfetta e sublime solitudine. Giungo a Lesis, e superato il
ponticello alpino sul torrente Cellina ( a ottobre non si paga il pedaggio), lascio l’auto nell’ampio spazio adibito a
parcheggio. La temperatura è effervescente, direi primaverile. Una volta
approntatomi con l’equipaggiamento, parto.
Il sentiero lo conosco a memoria, esso diparte proprio pochi metri dopo.
L’ambiente è fantastico, oltre le sponde del torrente, a occidente, posso
ammirare la mole del monte Chiampon, asceso questo inverno, ero anche allora in
perfetta solitudine, e naturalmente ne ho gioito immensamente.
Alcune montagne vanno affrontate
in solitudine, esse alla vista del viandante, come se perdessero la timidezza,
si schiudono, svelandogli i più intimi segreti.
Il sentiero che
percorro a causa della brina notturna è tanto scivoloso. Quello che noto
rispetto al mese scorso è la numerosa presenza di fettucce biancorosse che guidano
l’itinerario. Sono troppe e vistose, evidentemente si deve svolgere una qualche
competizione sportiva, sono così evidenti da essere notate anche da un cieco.
La giornata è
perfetta, l’ideale per sognare. Il cielo terso è di un intenso turchese, e mentre cammino, mi
ripasso i nomi delle elevazioni che cingono la Val Settimana. Il cammino fluisce
veloce, e non mi par vero già di avvistare in alto gli edifici della Casera di
Pradut.
Con somma sorpresa, constato,
che il remoto sentiero è stato liberato del tutto dagli schianti, davvero lodevole
il lavoro dei volontari che hanno reso delizioso l’itinerario. Una volta che ho
raggiunto il prato che precede il rifugio, apro lo sguardo e il cuore al
magnifico paesaggio che dai monti di Claut si libra fino al vicino Veneto. È
magnifico compiere un volo d’uccello immaginario sulle onorevoli vette, Duranno,
Cima dei Preti, Col Nudo per citarne alcune…
Mi avvicino al rifugio
con passo flebile, c’è qualcuno all’interno, i panni stesi al sole lo stanno a
testimoniare. Mi siedo su un masso, e consumo la mia dose energetica: due uova
sode, un pizzico di sale e un succo di frutta.
Il Cimon del Pradut mi
è di fronte, esso aspetta che io finisca la pausa e indossi lo zaino per
rivelarsi. Una volta pronto riparto. Il sentiero ha inizio alle spalle di
casera Pradut, un dolce pendio mi conduce al fitto bosco. Appena raggiungo il
crinale scopro l’inequivocabile traccia che segna la dorsale del monte, la stessa,
protetta da file di aghiformi, mantiene il suo andamento ripido e lineare. Non avrei
mai immaginato che il cammino verso la vetta fosse così agevole. Un’insegna con
il nome del monte è inchiodata ad un albero e mi consiglia di seguirne la
direzione, ed è quello che faccio. Mantengo costante il passo, sono più di
trecento i metri di dislivello che separano la vetta dal rifugio. Non avverto fatica, anzi, la curiosità di
scoprire come sarà la cima allevia gli sforzi. L’alta vegetazione degli arbusti
lascia il passo a quella d’altura, inizio a scorgere il cielo e il paesaggio
circostante. La cresta a volte è ampia e raramente si dirama. In un passaggio
stretto e leggermente esposto noto un
enorme larice, passando lo sfioro, dedicherò ad esso più tempo in discesa. La
traccia è chiara, e mi pare di essere in prossimità della sommità. Sento
l’emozione del momento, pochi metri
ancora ed eccomi in vista di un piccolo ometto di pietra sormontato da un ramo
secco, fatta! Cimon del Pradut è conquistato, e ne sono felice. Ho raggiunto la
vetta goniometrica, quella segnata quota 1743 m. molto ampia e solare, mentre
la quota più alta, 1769 metri, è preceduta da un enorme salto, ed è coperta da
una fitta vegetazione. Per oggi mi ritengo soddisfatto e non mi va di cacciarmi
nei guai, quindi, contento della conquista, vengo ripagato dallo splendido
paesaggio. Manca ancora poco al meriggio, e ho ancora tantissimo tempo da
dedicarmi.
Scopro accanto all’ometto di vetta una cassettina in
metallo, dove all’interno è serbato un quaderno a righe inutilizzabile perché
fradicio d’acqua e la stessa biro in dotazione è fuori uso. Provvedo
immediatamente a sostituire il tutto, con un libretto e una biro nuovi di zecca,
e con un astuccio in plastica color giallo della Nestlé, infine proteggo il contenuto in una busta sempre di
plastica e lo chiudo perfettamente all’interno
della cassetta metallica. Non sono l’unico che fa il crocerossino dei libri di
vetta, per me è una missione. Mi rendo conto che una penna e un contenitore per
alcuni sono “un peso insostenibile”, ma per me sono un piacere e anche un
dovere.
La montagna per il
sottoscritto è anche un mutuo soccorso, bisogna lodare e proseguire il lavoro
altrui.
Soddisfatto del
lavoro, e dopo aver annotato il mio passaggio e fatto la foto per i posteri, mi
concedo a due delle mie grandi passioni, la lettura e il disegno.
Dopo aver iniziato per
l’ennesima volta “ Cent’anni di Solitudine” di Gabriel Garcìa Màrquez ( prima o
poi lo finirò di leggere), estraggo dallo zaino il mio taccuino con le matite,
disegnando il volto idealizzato della dea che amo più delle altre, la
fantastica Artemide.
In vetta sto bene. Fermate
il tempo non voglio scendere, piuttosto, costruirei un capanno e ci vivrei.
A sud ammiro il
profilo del Ressetum e il Colon con la magnifica cresta, mentre tutto intorno
gravita il paradiso. Le vette che contemplo sono infinite e non riesco a
numerarle, alcune mi sono sconosciute. È durissima l’ardua impresa di alzarmi e
rientrare, ma debbo, e a valle tengo ancora casa e famiglia, e i pelosi che mi
aspettano. Prima di lasciare la vetta do un ultimo sguardo all’ometto, poi mi
giro tristemente, come se fossi in una stazione ferroviaria in attesa di
partire. Provo sempre questo tipo di malinconia ogni volta che lascio una vetta,
è come lasciare una donna che si ama senza aver mai avuto screzi, è un dolore
lancinante, una fitta al cuore che solo chi ama la montagna può comprendere.
Durante la discesa , rivedo
l’enorme larice e vengo preso da un’improvvisa sonnolenza, e visto che è ancora
presto ,decido di togliere lo zaino, adagiandolo alla base dell’albero per
adoperarlo come cuscino; mi bastano pochi attimi per essere rapito da Morfeo, e
trapassare dolcemente dal mondo empirico a quello onirico.
Durante il sogno mi
trovo all’esterno di una baita, e osservo due ragazzi giocare fuori da essa. Ne
descrivo l’aspetto: uno è biondino, il più allegro, molto vivace e solare, lo
chiamo Sergio, mentre l’altro amico,
moro di aspetto, lo chiamo Mario, egli è introverso, taciturno, e riflessivo. I
due sembrano agli antipodi, ma forse per questo sono amici, in un certo senso
si completano. La passione che li lega è la mia stessa, la montagna. Sergio ama
andare in giro nelle prime ore dell’alba, per contemplare il sorgere del sole, correre
per i prati, e arrampicarsi sugli alberi; sempre pronto a fare scherzi
all’amico. Mario invece predilige le ore del crepuscolo, il sole che lascia il
cielo, tingendolo di rosso fuoco, il silenzio della notte e i boschi fitti di
mistero. Spesso l’uno raccontava
all’altro le emozioni vissute, finché un giorno decisero di vivere un intero ciclo
di avventure assieme. Si svegliarono prima dell’albeggiare, per assistere al nascere
del sole presso un cocuzzolo proteso sulle cime circostanti. Durante l’ascesa
della palla di fuoco si abbracciarono, rapiti dall’intensa emozione. Trascorsero il mattino a seguire le acque dei
ruscelli lungo i suoi corsi, e felici come caprioli correvano per i prati a rincorrere
le farfalle e giocare con i grilli. Il cinguettio costante degli uccelli fu la
loro colonna sonora, sempre osservati dall’alto dal meraviglioso volteggio
della solitaria aquila. Dopo la merenda, nel primo meriggio, decisero di
avventurarsi in alto, fino alla rupe, ma per raggiungerla dovevano attraversare
un fitto bosco misto di faggi e aghiformi. Era autunno, e il colore rosso dei
faggi contrastava con l’eterno verde degli abeti, mentre in alto i regali
larici si erano tinti d’oro. Superata la casera Pradut iniziarono ad ascendere
l’omonimo monte, ma il meteo stava per cambiare. Delle minacciose nubi sbucate
improvvisamente all’orizzonte minacciavano bufera. I ragazzi rapiti
dall’avventura non furono avveduti, finché il primo scroscio d’acqua che preannuncia
l’inevitabile li trovò impreparati in quota. Tuoni e fulmini squarciavano il
cielo che improvvisamente si rabbuiò. Mario ebbe uno strano presagio e invitò
Sergio a cercare riparo verso un antro, ma il crinale si rivelò crudele. Ad un tratto
uno strano silenzio, cupo e tenebroso, irruppe sulla scena, e nel medesimo
istante un suono stridente squarciò il cielo finché una saetta si abbatté sui due amici che
nel frattempo impauriti stavano abbracciati. Istintivamente e nel medesimo
istante Mario coprì con il proprio corpo l’amico, rimanendo esposto alla furia
della saetta, e il gesto salvò la vita a Sergio. La bufera passò velocemente e
con essa cessò la pioggia, e sul terreno rimase il corpo inerme di Mario. Come
per magia l’energia vitale lasciava il corpo dello sfortunato per fluire in
quello di Sergio. L’amico rimasto in vita adagiò il corpo dello sfortunato su
un masso, un ultimo abbraccio e
piangendo corse giù dal monte, urlando disperatamente prima di svanire nella
selva…
Ho immaginato che
egli, come un viandante senza meta, andasse in giro per monti alla ricerca di
un nuovo amico che somigliasse a Mario,
per condividere la passione per la montagna, cosciente che lo spirito dell’amico
ora alberga nel suo. La dea Artemide commossa nell’assistere all’episodio piantò
un seme di larice sul luogo dove giaceva Mario. Il destino beffardo volle che anni dopo un fulmine si
abbatté sullo stesso larice, spaccandolo in due tronchi con la medesima radice.
Un tronco radioso esposto a sud con i rami protesi al sorgere del sole, mentre l’altro
, quello arso dal fulmine, si chinò a occidente orientandosi al crepuscolo del sole.
Due larici in simbiosi, uno a catturare la luce e irradiare i rami dorati nel
cielo, mentre l’altro a catturare l’umidità per mantenere vivo il primo. Notte
e giorno, vita e morte, l’eterno dualismo del divenire…
Mi sveglio dal sogno e
mi ritrovo ai piedi del larice, stavolta
lo osservo meglio. È lo stesso albero del sogno, una parte è viva, e i
rami sono colmi di aghi dorati che
luccicano nel cielo azzurro, mentre l’altro fusto è nero, carbonizzato e con i
rami anneriti protesi verso l’ombra. Mentre abbraccio entrambi qualcosa mi
colpisce e attrae nel lato oscuro, qualcosa che luccica come se fosse sangue. La
sfioro, è la calda resina che pulsa e profuma. Il larice vive in entrambi i
tronchi e quello proteso verso il sole è Sergio, mentre Mario, la parte silente
è quella oscura, che con la sua linfa tiene in vita il fraterno amico. Li stringo
entrambi, mi commuovo, non pensavo oggi di vivere una storia simile. Sento il
cuore di Mario battere, e lo spirito di Sergio gioire. È meraviglioso cingere
il larice, e sento che il gesto è corrisposto. Indosso lo zaino, sono rapito e
frastornato, decido di rientrare, ma prima salgo su un dosso posto a pochi
metri, per ammirare in tutta la sua magnificenza il larice, e voltandogli le
spalle inizio la discesa. Il sogno e la realtà mi hanno sconvolto. Mi
chiedo cosa sia l’amore. Amore è dare, e donare la propria vita per un simile è la
massima espressione d’amore che ci sia. Una lacrima solca il mio volto mentre
mi avvio verso la casera Pradut…
Pochi metri ancora e raggiungo
il rifugio, ho fame. Ho ancora addosso l’odore della calda resina del larice,
il magnifico sogno è stata una magica realtà. Presso un masso bianco e lucente
trovo il luogo ideale per consumare il pasto. Pane, mortadella e un buon rosso (Nero
d’Avola), pranzo degno di Dionisio, e mentre mi sfamo, scruto sulla mappa ripassando
le cime. Cornaget, Caserine sono alle mie spalle e altre ancora ne ammiro,
mentre dall’alto osservo la magica valle che scema a Cimolais. Questa visione è
un autentico paradiso. Riprendo il cammino con il mio placido passo sino al
parcheggio, che trovo brulicante di escursionisti.
È stata una felice
giornata con una magica avventura, e anche oggi ho sognato a occhi aperti…
Il Forestiero Nomade.
Malfa.
Nessun commento:
Posta un commento