Anello del monte Sciober dalla Val Romana, l’ideale per i
viandanti amanti del silenzio.
Note tecniche.
Localizzazione: - Alpi Giulie - Gruppo del Mangart
Sottogruppo Dorsale Bucher-Picco di Mezzodì.
Avvicinamento: Lestans- Gemona- Statale Pontebbana direzione
Tarvisio- A Tarvisio seguire indicazioni per Predil- Laghi di Fusine e
successivamente prendere la deviazione a destra per la frazione di Rutte e
proseguire verso Ortigara fino all'incrocio con la stradina che scende dalla
Val Romana- Lasciare l’auto presso un divieto di transito (854 m.)
Dislivello: 1100m.
Dislivello complessivo: 1200 m.
Distanza percorsa in Km: 17
Quota minima partenza: 854 m.
Quota massima raggiunta: 1853 m.
Tempi di percorrenza escluse le soste: 7 ore
In: solitaria
Tipologia Escursione: paesaggio-escursionistica
Difficoltà: Escursionisti Esperti
Segnavia: CAI 511; 520;
Impegno fisico: medio-alto
Preparazione tecnica: bassa
Attrezzature: no
Croce di vetta: no
Ometto di vetta: si
Libro di vetta: istallato
Timbro di vetta: no
Riferimenti:
1)
Cartografici:
IGM Friuli - Tabacco.
2) Bibliografici:
3) Internet:
2) Bibliografici:
3) Internet:
2)
Periodo
consigliato: maggio-ottobre
3)
Da
evitare da farsi in: con terreno umido e in presenza di ghiaccio
Condizioni del
sentiero: ben segnato e marcato
Fonti d’acqua: molteplici
ruscelli
Consigliati:
Data: 27 maggio 2020
Il “Forestiero Nomade”
Malfa
Malfa
Ho dato un’occhiata al
mio programma delle escursioni da farsi nell’anno corrente (file Excel) e viene
fuori lo Sciober. Il file Excel è il risultato dell’ampia ricerca effettuata sulla
“Guida escursionista alle Alpi Carniche”, redatta da Rino Gaberrscik, in essa
ho trovato percorsi e cime di cui ignoravo l’esistenza.
Vista la quota non
eccelsa dello Sciober (1844 m.) e il periodo stagionale, dal pensiero sviluppo
l’azione. Mi piace l’ubicazione del rilievo, da anni non vado nel tarvisiano, e
meno che mai sono stato nella Val Romana, quindi con una fava prenderò più
piccioni.
Il giorno dell’escursione
arrivo nel tarvisiano in ora tarda, all’incirca alle ore 08:30 del mattino,
conscio che nel pomeriggio il meteo reggerà, ne approfitto per prendermela
comoda.
Mi inoltro nella Val
Romana, lungo la strada che porta a Predil. È tanto emozionante guidare nella
vallata, supero la frazione di Rutte con le tipiche e caratteristiche baite
alpine, sembra di vivere un sogno. La carrareccia procede nel bosco, alcuni segni
CAI mi indicano che sto percorrendo il sentiero dell’Alta Via tarvisiana, finché
raggiungo un ampio slargo dove sono ammassati ai lati delle cataste di enormi tronchi.
Trovo il parcheggio per
l’auto ai margini dello spiazzo, una volta approntato, con Magritte al seguito,
parto! Pochi metri dopo un enorme trattore incrocia la mia strada, il gigante
di ferro è guidato da un omone con un bel volto: brizzolato, barbetta, camicia a
quadri, e dall’aspetto sembra un nordico d’oltre Manica. Si adopera con il
grosso automezzo con la legna accatastata, intuisco che di lavoro professa il boscaiolo,
ultima generazione, ovvero quattro punto zero. Gli chiedo se il mio automezzo è
posteggiato bene e non sia di impaccio al suo lavoro. Da una veloce valutazione
l’omino mi risponde laconicamente che la mia l’auto non gli dà noia. Ci
salutiamo, mi scruta con benevola curiosità, e la vista di Magritte al mio
seguito gli disegna una bella espressione sul volto. È piacevole iniziare
l’escursione con un sorriso donato.
Il primo tratto del percorso
è una carrareccia che si addentra nella Val romana, essa affianca il greto del
Rio Bianco (sinistra orografica). Il rumore del fluire delle acque, l’armonia
dei colori del paesaggio e la temperatura frizzantina mi donano vivaci emozioni,
un intenso turbamento di libertà avvolge il mio corpo.
In lontananza avvisto
un’elevazione dalla vistosa forma acuta, appare come una cuspide, è il Picco di
Mezzo dì. Ad ogni passo che compio entro in profondità in questo fantasmagorico
universo naturale, sono davvero radioso, e il bello deve ancora venire.
Un cartello CAI con
annesso un singolo guanto di operaio mi invita a lasciare la comoda carrareccia
per iniziare a faticare. È l’inizio del sentiero numerato 520, secondo le
indicazioni dopo due ore sarò dinanzi alla Capanna Cinque Punte. Sembra facile
a dirsi, ma la traccia parte ripidissima, addentrandosi dentro la foresta di
conifere.
Lungo il tragitto
attraverso molteplici impluvi riarsi tra cui il Rio Sciober. A volte il
sentiero è ripido ed esposto, altre invece comodo e ombroso. Presso una
selletta la visuale si apre sulle maestose Cinque Punte. Il luminoso bianco
della dolomia contrasta felicemente con il cielo color lapislazzuli. Il
sentiero taglia orizzontalmente il versante, a volte svanendo nella fitta
boscaglia per poi riapparire di nuovo nel versante assolato. La maestosa mole
del Mangart, conscia della sua magnificenza, esibisce i suoi splendidi versanti
come una bella donna mostra le sue forme. Presso quota 1500 m. la traccia sbuca
in un ampio prato: a oriente ammiro la Capanna Cinque Punte (quota 1520 m.),
poco fuori l’ingresso è posta una fontana campale perfettamente funzionante.
Disseto il mio
compagno e subito dopo ispeziono il locale del rifugio. Aperto l’uscio, trovo
adagiati su un tavolo dei libretti con pentagrammi di musica giapponese e il
libro di vetta. Mentre firmo il mio passaggio osservo degli oggetti rosicchiati
e delle piccole tracce di escrementi dei padroni di casa, sicuramente trattasi
dei simpatici topolini alpini.
Lasciato l’edificio,
ammiro la mole delle Cinque Punte, per poi cercare e trovare nell’inerbito
prato le tracce del proseguo del sentiero 520.
Il cammino prosegue
illuminato e baciato dal sole, esile ma sicuro, percorre in orizzontale dentro
la bassa mugheta le pendici meridionale delle cinque punte.
Sono davvero felice, mi par di volare, le
gambe incessantemente e con andamento lento e costante sono in continuo movimento.
Lo sguardo rapito fissa le molteplici elevazioni: dalle lontane Giulie al
prossimo Sciober, intuisco che lo dovrò risalire sino quasi in cima, a occhio
stimo che devo ancora scalare circa trecento metri di dislivello.
Tra lo Sciober e le
Cinque Punte percorro la cresta che li unisce, il sentiero è quasi aereo, per
poi iniziare l’ascesa del ripido pendio, a tratti faticoso che si snoda tra i bellissimi
larici in fiore e i simpatici mughi.
Al termine dell’ascesa
sono al vertice, dove spero di trovare un taglio che nella fitta mugheta mi
porti sino alla vetta dello Sciober Grande, ma mi illudo. Non trovando nulla,
ritorno sui miei passi di alcuni metri, finché scovo un piccolo ometto (a
sinistra per chi ascende). Penetro tra i mughi, cercando e rivelando tagli sui
rami o segni di passaggio, finché mi calo di alcuni metri e attacco lo zoccolo
roccioso dello Sciober (il tratto che precede la cima). Passaggio per nulla trascendentale, un provvidenziale
taglio tra i mughi mi porta alla piccola vetta, omino e nulla di più (quota
1844 m).
Lascio tra i sassi
dell’ometto un contenitore porta cassetta VHS, con il simbolo del gruppo “La
montagna per spiriti liberi”, e di seguito mi concedo alla contemplazione
fotografica. Il paesaggio è spettacolare: a oriente è ben visibile il gruppo
Fuart-Montasio, mentre a Occidente il gruppo del Mangart con tratti delle
creste delle Ponze. Immagino che sarebbe stato meno avvincente e struggente la
visione se non avessi conquistato in precedenza i monti appena citati. Confesso,
che le cime minori come lo Sciober sono degli splendidi palcoscenici, da dove è
fantastico poter ammirare le sorelle maggiori.
Magritte è in
splendida forma, oggi ha conquistato la sua 210° prima cima, niente male per il
piccolo lupetto guerriero, lo amo davvero, assai assai. È il mio migliore
amico, non mi ha mai tradito, e insieme abbiamo vissuto avventure indimenticabili.
In questo periodo sembra rinato, mi rendo conto che siamo in simbiosi, se si
ammala uno si ammala anche l’altro, fino ad alcuni mesi fa si claudicava di
comune accordo con lo stesso ritmo, ora siamo rinati come l’Araba Fenice a
nuova vita. Viva la Montagna, viva la Libertà, viva l’Amore.
Ripreso il cammino, elargisco
a Magritte alcuni minuti di autentico sollazzo su due chiazze di neve, dopodiché,
esso, il fido, come un diligente soldatino, riprende il suo ruolo. Continuiamo
a percorrere la cresta che collega lo Sciober alla Portella. È gradevolissimo questo
tratto, solare e aereo, saliamo sulla quota più alta tramite una breve
deviazione, un altro ometto è posto alla quota 1853 m.
Ripreso il cammino,
proseguiamo sempre per lo strabiliante sentiero, a volte esile e altre ampio,
ma sempre scoperto al luminoso cielo. Presso la Portella scorgo un paletto con indicazioni
CAI: a destra si scende a Cava di Predil, a sinistra si entra nell’ampia conca
dominata dalle creste dell’Ursic e la Porta dei Camosci. Oltre la parete rocciosa
la visione accarezza la maestosa e regale cupola del Mangart con vista sul versante
sloveno. Che meraviglia! Questo luogo non vorrei lasciarlo, sono rapito. Il
primo passo oltre la Portella è doloroso, perché segna l’inizio sia della discesa
che del rientro. La traccia è ben marcata e porta all’altro versante del teatro
naturale, a pochi metri dal confine sloveno, per poi iniziare la lunga discesa.
Raggiunta la base della
conca, ammiro uno scenario che gli stessi greci del periodo ellenistico
avrebbero prediletto per una delle loro immortali rappresentazioni tragiche. Per
un attimo mi sono immedesimato in Eschilo, osservando il colto pubblico,
vestiti con chitoni, assistere alla tragedia “Orestea”. Dopo il rapimento
ideale e l’estasi concessa alla fantasia, riprendo il cammino tornando alla
realtà. Un paletto con segni CAI mi invita a spingermi dentro la mugheta (il
sentiero ora è nominato 511) percorrendo il lato destro di un ripido canalino
ghiaioso, per poi riprendere il passo, zizzagando dentro la mugheta finché mi
frena un attimo di disorientamento. Mi ritrovo fermo e a ridosso di un baratro:
un versante non è segnato ed è frastagliato e iper-esposto; mentre dei bolli
rossi e vistosi mi invitano a calarmi in un canale, che appare più sconsigliabile
di quanto non lo sia nella realtà. Mi calo dentro di esso, constatando che
effettivamente si rivela meno pericoloso di quanto immaginassi. Superato
l’ostacolo mi ritrovo al di sopra di uno smisurato cono detritico, prima mi
destreggio tra i grandi macigni che con lo scendere di quota diminuiscono di mole.
Che dire, oggi non mi sono fatto mancare davvero nulla. Bolli, segni CAI e
ometti gareggiano per indicarmi la direzione da seguire, portandomi sull’altro
versante del canalone detritico, dove riprendo la traccia all’interno del bosco
di Conifere. Stavolta percorro un sentiero ampio quanto una carrareccia e
tappezzato di foglie secche e adombrato dalle chiome della selva. Il comodo
sentiero porta all’ampio e ghiaioso letto del Rio Bianco. L’estesa distesa di pietrischi
è abbinata al sonoro e magico suono del torrente che scorre alla mia sinistra. Seguo
i bolli rossi posti a destra, percorrendo più di due chilometri finché a nord scorgo
qualcosa di vistoso e che si muove, sono due escursioniste che procedono nella
mia direzione. Incrociandoci ci salutiamo, non abbiamo mascherine, la distanza
chilometrica ce lo consente, dando a questa escursione un tono di normalità,
anzi speciale. Poco prima di rientrare nella carrareccia dell’andata noto due simpatiche
e mature signore tra i mughi presso la sinistra orografica del Rio. Stanno
sicuramente raccogliendo rametti, penso forse per preparare delle prelibate
grappe. Ascolto la loro allegria, sono vive, sono ritornate anche loro a
godersi la vita, viva la vita, viva l’amore. Ultimi metri di marcia nella carrareccia
ed eccomi all’auto, mi cambio velocemente e partiamo per la pianura. Pranzeremo
dopo, molto più in là, ma tanto più in là, addirittura a Chiusaforte, presso la
panca posta accanto alla fontanella con leone, noto simbolo della Serenissima.
Con l’amico Magritte, si consuma il lauto e meritato pranzo, per lui carne in
scatola, mentre io panino e frutta.
Con una sensazione di
beatitudine che avverto nel corpo e nello spirito dopo ogni felice fine
escursione, chiudo questo mio racconto, conscio di essere innamorato più che
mai della montagna, della vita e della libertà. Viva l’amore.
Il Forestiero Nomade.
Malfa