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lunedì 2 settembre 2019

Monte Cuccio 1082 M. 29


Monte Cuccio 1082 M. 29 luglio 2019.
Monte Cuccio 1082 m.



Note tecniche.

Localizzazione: Palermo

Avvicinamento: Partenza dal centro storico di Palermo, piazza S. Onofrio, ove una volta scorreva il fiume Papireto

Dislivello: 1082 m.

Dislivello complessivo: 1100 m.

Distanza percorsa in Km: 30,300.

Quota minima partenza: 0 m.

Quota massima raggiunta: 1082 m.

Tempi di percorrenza escluse le soste: 7 ore

In: Solitaria.

Tipologia Escursione: Escursione, storico-naturalistica-selvaggia

Difficoltà: Escursionisti Esperti.

Segnavia: Nessuno.

Impegno fisico: Alto.

Preparazione tecnica: medio alta

Attrezzature: No.

Croce di vetta: No.

Ometto di vetta: No, solo un prisma dell’IGM.

Libro di vetta: No.

Timbro di vetta: No.

Riferimenti:

1) Cartografici: IGM Sicilia - Tabacco.
2) Bibliografici:
3) Internet:

2) Periodo consigliato: Tutto l’anno

3) Da evitare da farsi in:
Condizioni del sentiero: inesistente

Fonti d’acqua: una fonte pochi metri sotto la vetta.

Consigliati:

Data: 29 luglio 2019.

Il “Forestiero Nomade”
Malfa

Monte Cuccio, la bella piramide si erge a settentrione di Palermo, essa per anni è stata per un mistero per il sottoscritto. L’elevazione si nota dalla città per l’inconfondibile forma e per i ripidissimi e assolati versanti, sprovvisti quasi del tutto di vegetazione arborea.
Palermo, la città che domina la Conca d’Oro, così si chiama la pianura che la circonda, è protetta dal mare e da un arco di monti. Immagino lo stupore che provarono i fenici nello scorgere per la prima volta il golfo, un autentico paradiso in terra e in esso vi crearono il nobile centro abitato. Da bimbo osservavo le varie elevazioni che circondano la città, fantasticando, ora, in età matura è giunto il momento che ne percorra le creste. In queste ultime vacanze nella città natia dubitavo di poter fare eccessivi sforzi, ho un’anca che mi crea problemi, a presto dovrò fare un intervento chirurgico, quindi sono giunto a Palermo, convinto di dovermi limitare. Ma la testardaggine e la forza di volontà sono due delle mie caratteristiche, quindi ho deciso di compiere l’impresa.
Ho letto su alcuni blog locali che in passato si pensava che la montagna fosse un vulcano spento, per via della forma di cono rovesciato. Alcuni giorni prima ho studiato il rilievo dal terrazzo dell’abitazione di mia sorella, il tramonto ne tingeva la cima e l’ante-cima, tanto somiglianti alla piramide di Cheope al morire del sole. Ho subito un’attrazione fatale, le ore per l’ascesa erano contate. Arriva il giorno dell’escursione partenza anticipata, la sera precedente ho preparato lo zaino, niente panini al seguito, solo pomodorini e frutta, e naturalmente tanta acqua.
Percorro le strade del centro storico nell’ora in cui i palermitani mattinieri lasciano l’abitazione per recarsi al lavoro. Una temperatura frizzantina portata dalla brezza di mare mi accompagna nei primi passi. Percorro le stradine tra i noti edifici monumentali, tra cui spicca il teatro Massimo e le chiese che variano di stile, dal gotico al barocco. Tagliando per vicoli e vicoletti mi ritrovo nei pressi di via Dante, confine tra il vecchio centro storico e il più recente, quello liberty. La villa Florio e i palazzi neoclassici sono il confine tra il vecchio e il nuovo mondo costituito dall’edilizia sorta dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Via Malaspina è l’arteria che taglia l’agglomerato fino ad arrivare ai palazzoni nuovi, ma quello che non cambia in nessuna immagine è l’incuria a cui sono abbandonate le strade, come se lo spazio comune non appartenesse al singolo cittadino. Questa cattiva abitudine è difficile da estirpare, come se tutto questo fosse una legge naturale.
Due ragazzi di colore escono da un portone, tengono delle scarpe in mano, uno di loro prende una busta da una pattumiera e dopo averla pulita con uno strappo, gli infila dentro le scarpe. Non giudico male il gesto, anzi, cerco di capire la logica, non è difficile. Perché buttare un oggetto che può essere utile; nel terzo mondo vivono con poco, e da noi il molto non basta mai.
Continuo il viaggio, dovrei prendere un autobus che mi porta a destinazione ma non passa, l’attacco all’eventuale sentiero dista quasi 12 chilometri da dove sono partito, ma non ho ancora avvistato nessun mezzo pubblico. Passo davanti ai laboratori di pasticceria, l’odore della crema domina il tutto, è inebriante, rapisce e ti consiglia di entrare dentro il locale e consumare a piene mani, facendo un pieno di calorie, resisto e stoicamente vado avanti.
Ora sono in vista della meta, più mi avvicino e meno ripida mi appare, ne studio il profilo, appare fattibile dal versante che ho scelto. Ancora nessun mezzo pubblico è passato, sono quasi alla fine del tragitto urbano, mi trovo davanti gli ultimi edifici della periferia.
Seguo istintivamente la direzione verso le alture, mi dirigo dentro un villaggio tramite strada asfaltata e privata.
Oso! Percorro dall’interno il residence, tra pini marittimi e ville faraoniche, salgo di quota, alcune ville mi colpiscono per lo sfarzo, appaiono disabitate ma non lo sono, saranno sicuramente comode alcove per avventure galanti, chissà?
Dopo una serie di tornanti sono quasi in cima alla collina che domina la struttura residenziale, intravedo della pineta un sentiero non segnato, lo percorro, esso con una serie di tornanti mi porta in cresta, spero che il colle sia attaccato al resto del monte. Per terra trovo un oggetto, sicuramente smarrito da un locale, l’ho prendo con me, è un dono della montagna.
Dalla cresta scopro che dovrò abbassarmi tanto di quota prima di effettuare la vera ascesa al monte, il percorso che attuo è in libera, senza tracce, arrivo alla base del colle per poi riprendere il cammino verso monte Cuccio. Varco alcune recinzioni con all’interno greggi di pecore, successivamente scorgo un gruppo di umani intenti ad attendere, non so che cosa.

A primo acchito pensavo che fossero sfollati o zingari, poi avvicinandomi mi accerto che sono operai della forestale in sosta per la siesta. Saluto, mi presento e chiedo delle informazioni inerenti a un eventuale sentiero che mi porti in vetta. Pensano che io sia un matto, mi guardano incuriositi, mi dicono che è difficile, quasi mi deridono. Per essere più convincente dalla lingua ufficiale passo al dialetto, così i soggetti sanno con chi hanno a che fare, e con alcune piroette verbali in un gergo arcaico convinco i miei concittadini che non sono E.T, e che “quattru fila mi manciu” (quattro fila me li mangio, intendendo gli spaghetti) espressione locale per dire che non sono uno sprovveduto.
Ora gli amici sono socievoli, anzi quasi cerimoniosi, ma le loro informazioni sono vaghe, ho compreso più io del monte con lo sguardo che loro nel lavorarci sopra da una vita. Hanno solo pulito una fascia di terreno, che rimane accidentato e non percorribile per la massa. Saluto l’operoso gruppo con un burlone” Assabinirica” (siate benedetti) e procedo per la meta. A causa dell’erba spinosa sanguino dalle gambe, decido di indossare i pantaloni lunghi, così assumo l’aspetto del “Malfa il forestiero Nomade. L’abito nero non guasta, poi mi fa secco e figo, quindi in assetto da guerra vado all’attacco della meta.
Raggiunto un traliccio della corrente elettrica, scavalco una staccionata adornata di fil di ferro spinato, procedo a vista. Tra l’alta vegetazione e i salti cerco di raggiungere un avvallamento per risalire un eventuale rio asciutto. La fortuna mi assiste, trovo un esile traccia che taglia in diagonale il versante orientale del monte. L’erba alta rende poco visibili i vecchi sentieri ormai quasi del tutto scomparsi, questo che sto percorrendo mi porta a oriente, fino a intravedere il versante occidentale. Mi rendo conto che seguire la traccia è: lungo, dispersivo e snervante, quindi raggiunta la base della cresta decido di percorrerne la schiena, naturalmente ascendendo.
La vegetazione è affascinante, il dorato dell’erba contrasta felicemente con il verde della mala erba, radi alberi si ergono dalla roccia selvaggia e tagliente.
Improvvisando mi porto in alto, a volte trovo tracce, ma preferisco mirare alla sommità finché non intravedo le due cime.
La meno elevata delle cime dal basso appare più alta e l’altra viceversa. Do un’occhiata, vado avanti e trovo un esile traccia che mi porta a oriente della cima principale, presso un remoto abbeveratoio, da dove l’acqua non fluisce più da anni.
Stavolta seguo un ampio tratturo e scopro una macchia folta di vegetazione dovuta al continuo scorrere di un rigolo d’acqua. Seguo la provenienza della linfa vitale finché trovo la fonte, sicuramente remota dove spesso si dissetano gli animali selvatici. Raccolgo una piuma di corvo, la introduco nel nodo della bandana e procedo, dirigendomi a ovest. Aggiro la cima, finché scorgo una traccia proveniente da nord, ampia e percorribile anche da automezzi idonei.
Mi congiungo con quest’ultima, e la seguo con una serie di tornanti fino alla vetta del monte. L’erba selvatica fa sbocciare fiori deliziosi miste a spine fantastiche. Delle farfalle volteggiandomi intorno cercano l’umidità del mio sudore. Dopo l’ultimo tornante mi aspetta una miriade di antenne e parabole. Eccomi in vetta, dove scorgo il prisma in metallo dell’IGM per i dati trigonometrici. Supero la cabina elettrica e la miriade di cavi, e mi porto avanti, a sud, sulle prime rocce da dove posso ammirare senza ostacoli il bel paesaggio.
La città è lontana ed è circondata dal mare e dai monti. Mi libero dallo zaino, mi siedo su una roccia comoda, e mi appresto a fare convivio.
Le derrate fresche sono delizia per il palato, e mentre le consumo, ammiro e mi rilasso, contemplando l’ambiente circostante. Osservando Palermo da lontano, essa mi appare splendente ed energica. Penso agli antichi viaggiatori e mercanti come i fenici, che per primi scoprirono questo fantastico ambiente a cui dettero i natali. E gli arabi che l’ampliarono e abbellirono, ai normanni e agli svevi e i rispettivi imperatori e al magnifico Stupore del Mondo, che la resero unica. Palermo, fucina di mille idee e città cosmopolita. Se il grande imperatore svevo non fosse morto prematuramente sicuramente avrebbe realizzato e anticipato di secoli un’Europa unita e civilizzata sotto lo stesso stendardo e bandiera.
Penso alle maestranze bizantine, ad artisti come il Caravaggio, Serpotta, Cagini, Antonello da Messina. E infine penso a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, figli di questa terra ed eroi moderni, che hanno combattuto e non invano contro un cancro che non prospera solo tra noi.
E io quassù, me ne sto seduto come il folle sulla collina, fantastico e piango d’amore per uno scintillare di edifici all’orizzonte, perle preziose nello smeraldo brillare degli agrumeti della Conca d’Oro.
Non mi stanco di estasiarmi per tutta questa magnificenza, la natura qui domina tutto, le civiltà sono laggiù con il loro caos quotidiano. Quassù l’universo non parla in palermitano, è astratto, perché protetto dalla fatica, dalla ripidità dei versanti; e l’uomo comune non ama investigare perché codesta attività comporta tanto impegno. Sono lontano dai pensieri dolorosi dell’esistenza e da tutto quello che mi tormenta quotidianamente, sono solo, solo…
Quassù non ho nessuno da abbracciare e che mi ricambi, nessuno da chiamare e nemmeno da udire.
Sono solo, solo…
Vesto i panni usurati da mille sentieri, e una bandana che si lacera al solo sventolare del vento che ne asciuga l’umido sudore. Azzurro cielo e terra dorata date eterno riposo a un corpo che è stanco di ospitare una mente irrequieta e sempre in pena, a volte demoralizzata da tutto e da tutti. I pensieri malinconici si avvicendano velocemente come lo scorrere dell’acqua dentro un rivolo, dopo un violento temporale. E ‘giunta l’ora di tornare viandante, oggi sei forestiero anche nella tua terra genitrice.
Ripresomi dal fantasticare decido di compiere l’escursione ad anello, e visto che sono a piedi, decido di scendere dall’altro versante. Il sentiero di avvicinamento alla città è lungo, distante e tortuoso, quindi, consigliato dal selvaggio istinto dopo aver studiato i vari fianchi del monte, intraprendo quello più erto e diretto. Osando affronto i ripidissimi piani gialli ed erbosi, sperando di raggiugere la strada in basso più di 900 metri di dislivello. Con cautela mi calo dalle rocce sommitali e poi affronto il prato. Quello che dall’alto appariva come un ripido prato ingiallito, in realtà si rivela un percorso insidioso con fasci d’erba altissimi. Così inizio la lunga e faticosa discesa, tra numerosi salti insidiosi e celati. Durissima esperienza questa che ho intrapreso. In un tratto, a metà discesa, scivolo di spalle su un masso, urtando violentemente la schiena, il colpo subito mi toglie per alcuni attimi il respiro, mi è parso di morire, ma sopravvivo, portandomi come conseguenze un forte mal di schiena. Bene Beppe, non sarà questo incidente a fermarti. L’acqua comincia a scarseggiare, la raziono, devo arrivare giù, sperando di trovare una traccia. Non scorgo nulla, tranne un ripido ed esposto versante, dove calandomi mi tengo ai fasci d’erba come se fossero funi.
Le mani e le braccia sono striate di rosso, ma non mollo, finché dopo un paio di ore raggiungo una trazzera. Sono salvo! Ora mi appresto a percorrere i 12 chilometri che mi separano dall’abitazione. Il primo tratto da percorrere è una strada provinciale, da un cartello segnaletico leggo che mancano poche centinaia di metri dal Monastero di San Martino, l’istituto per orfanelli in cui fui rinchiuso da bimbo e da dove in un solo mese effettuai ben tre evasioni.
Dopo 48 anni, percorro lo stesso tragitto d’allora, la fuga verso Palermo, la libertà. Rimango sbalordito e allo stesso tempo ammirato, di come allora senza esperienza affrontai e condussi a termine questa impresa. Vagai per monti, con tutte le insidie che ciò mi comportò. Ho finalmente le risposte alle domande di allora. Ero un lupacchiotto, con una gran voglia di vivere e lottare contro le avversità della vita, avevo tanti sogni da realizzare. Oggi mi ritrovo ad essere un vecchio lupo, claudicante, ferito dalla vita ma con la stessa voglia di vivere di un tempo. Sogno e continuo a combattente, agguerrito e indomito come sempre.
Dopo alcuni chilometri mi ritrovo alla periferia di Palermo, nel quartiere Boccadifalco, ma quest’ultimo sembra lontano anni luci dalla modernità della città. Le donne che siedono fuori dall’uscio delle abitazioni commentano quelli che passano, questo riporta lontano, ai tempi di una civiltà contadina scomparsa. Palermo, la felicissima, è laggiù, in fondo allo stradone, e mi aspetta.
Fa caldo, l’azzurro cielo e l’infuocato asfalto mi accompagnano fino al caos, al traffico, alla capitale. La gente corre in auto, sembra presa da una continua frenesia e appare infelice.
Percorro la nobile strada che mi porta a ridosso della vecchia cinta muraria. Mi fermo alla ricerca di un caffè, ho brama di un buon gelato, me lo sono meritato. Ecco, avvisto una gelateria, ordino una brioches al limone, buona! Divoro con gusto la delizia, e nel frattempo passo sotto Porta Nuova.
Dalla porta settentrionale della vecchia citta dominata dalle sculture dei mori e da un’aquila imperiale, proseguo per il centro storico, dove migliaia di turisti fotografano e ammirano le meraviglie artistiche e architettoniche. Il gelato è scomparso velocemente, di esso mi rimane il ricordo e il sapore di limone sulle labbra. Lambisco la cattedrale con i suoi meravigliosi campanili gotici, è proprio bello e surreale il complesso monumentale, come se una magia l’avesse tinto in mezzo agli edifici barocchi e neoclassici. Poche centinaia di metri ed eccomi arrivato all’abitazione da dove sono partito. Sono stanco, i piedi bollono, ma sono pienamente soddisfatto, ho fatto un ‘impresa, una piccola impresa rispetto a quelle note, ma per me è stata una gioia e regalo inaspettato. Ho raggiunto il vertice di quella piramide che da piccolo ammiravo, e da uomo vissuto l’ho conquistata. Penso a poche ore prima, a quando sostavo in cima al monte, ero solo, solo... Sono ritornato bimbo e il mio cuore ha palpitato con la stessa intensità di 48 anni fa.
Il Forestiero Nomade.
Malfa

















































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