Anello del monte Ascensione 1100 m. da Ascoli Piceno.
Racconto.
Il
giorno del mio arrivo ad Ascoli Piceno, fra i vari rilievi che circondano la
città notai il bel monte dell’Ascensione; mi colpi in particolare il profilo
della vetta e i singolari precipizi.
“Una
scalinata di pietra che sale verso il cielo, una piramide, un profilo – quello
di Dante o di Cecco d’Ascoli – con la bocca il naso e la fronte, oppure ancora,
una grande mano con le cinque dita aperte come fosse un gigante che viene a
strapparti via con tutta la terra sulla quale tieni i piedi. È la particolarità
del Monte dell’Ascensione, quella di riuscire a cambiare continuamente forma
con il punto da dove lo si osserva. Aspro, quasi ostile se lo si guarda da
Ascoli Piceno, diventa allungato e rigoglioso di boschi dalla parte opposta,
mentre lo si avvicina da mare; comunque sempre riconoscibile, proteso com’è con
i suoi 1100 metri di altitudine, in mezzo alle colline del Piceno”
Cit.
Wikipedia.
Dalla
calca di antenne che affollano la cima si intuisce che è facilmente
raggiungibile con mezzi ruotati, mi soffermo sul versante più impervio, investigando
e coadiuvato dall’esperienza i provabili punti deboli, dove sicuramente sono
presenti sentieri.
Approvvigionatomi
di mappe IGM della regione Marche, studio le future escursioni, tra cui quella
che sto per raccontare. Dalla cartografia militare individuo una serie di
tracciati, decido di iniziare il cammino dalla periferia di Ascoli, sarà una
lunga e impegnativa escursione. Tutto è pronto, non mi rimane che aspettare il dì
vantaggioso.
Per
il giorno della partenza programmo un’altra escursione, ma al suonare della
sveglia (causa l’assopimento) ho rinviato la sveglia di un’ora, preferendo di
conseguenza come itinerario il monte dell’Ascensione. Con un’ora in più di dormita
alle spalle sono più carico ed energico, così mi avvio sparato per l’escursione.
La
temperatura esterna è frizzantina, questo mi permette avere il confort della
giacca tecnica. Inizio il cammino dalla periferia della città, per le vie incontro
gli abitanti intenti nelle loro plurime attività. C’è chi porta il cagnetto a
spasso, chi apre bottega e chi arieggiando le camere da una curiosa occhiata ai
passanti. Gli studenti, solitari, si avviano a scuola con i loro immancabili smartphones,
Il mio è riposto accuratamente nello zaino; approfitto di queste uscite per
staccarmi da questa abitudine che con il passare del tempo sta diventando vitale
per l’uomo del ventunesimo secolo.
Cammino
con verve sugli scarponi, con l’immancabile zaino in spalla, la bandana, e i bastoncini
da trekking sviluppati al massimo. Percorrendo la periferia, le strade mi
portano tra i mega complessi architettonici, stadi vuoti; le ciminiere protese
verso il cielo paiono colonne di arcaici templi.
Osservo
il genere umano, alcuni ostentato una divisa, altri un titolo, recitano da
prime donne, sempre alla frivola ricerca di un plauso in questo teatro chiamato
“Esistenza”.
Attirato
da un muro a secco, entro dentro un cortile, scoprendo all’interno la luna nel
pozzo. La vista del secchio in alluminio mi porta in tempi e luoghi mai vissuti.
Finalmente
ho raggiunto la periferia opposta, imboccando la strada in direzione del monte
mi ritrovo a un bivio, con qualche dubbio scelgo la direzione a destra
(Porchiano). Successivamente chiedo a una persona anziana (che sosta davanti all’uscio
di un casolare) se procedo bene per il monte Ascensione? Mi risponde, che ho scelto la strada più lunga ma meno ripida. Rassicurato
della preferenza, continuo, scenderò al rientro dall’altra direzione (Valle
Venere).
La
rotabile che percorro in salita ha un andamento sinuoso, essa attraversa i pittoreschi
colli ascolani, prevalentemente coltivati a ulivo. Dai margini della strada ammiro
l’aspetto bucolico del paesaggio: cavalli al pascolo, papaveri bagnati dalla
brina e violacei carciofi prossimi alla stagionatura. La strada volge a
settentrione, spesso mi assale il dubbio di aver sbagliato itinerario, consulto
la mappa, constatando che sto sempre di più alzando di quota e che mi allontano
progressivamente dal profilo del monte Ascensione. Il rimbombo di un motore alle
mie spalle preannuncia l’avvicinarsi di un fuoristrada. Il conducente del mezzo
è un giovane dagli occhi azzurri e dall’aspetto solare, egli è in compagnia di
un cagnetto dall’aspetto birichino. Alle mie domande conferma che sono sulla
giusta strada, e che potrò percorrere il tratto asfaltato di cresta fino al
piccolo borgo di Porchiano; raggiunto quest’ultimo dovrò procedere per tratturo
e con l’incertezza della percorribilità. Ringrazio e saluto l’amico, continuo
l’avventura, ammirando alla mia destra i calanchi.
“I
calanchi sono un fenomeno geomorfologico di erosione del terreno che si
produce per l'effetto di dilavamento delle acque su rocce argillose degradate, con scarsa
copertura vegetale e quindi poco protette dal ruscellamento. I calanchi sono (più
semplicemente) dei profondi solchi nel terreno lungo il fianco di un monte o di
una collina.”
Cit.
da Wikipedia.
Questi
calanchi dell’ascolano sono particolari, arrivo al margine del borgo di
Porchiano, un tratto di strada è franato, e degli operai sono in luogo per la ricostruzione.
Attraverso la frazione che porta i segni del terremoto, essa si erge sul calanco,
come una pinna caudale sulla schiena di un pescecane. Sulla facciata della
chiesetta della frazione, sono apposte delle mattonelle di maiolica, sulle quali
è dipinto l’Arcangelo Gabriele. L’immagine sacra, a causa della desolazione del
sito richiama l’angelo della morte. Una remota fontana posta in periferia del
borgo preannuncia il tratto più impegnativo dell’intera escursione, l’attraversamento
della cresta argillosa.
Il
primo tratto di sentiero è incantevole, è solcato da due lingue bianche di
argilla che spiccano nel verde crinale, sono gli evidenti segni del secolare andirivieni
dei carri. La suggestione del momento è indicibile, rimembro i versi della
poesia di Giovanni Pascoli dedicate al padre “O cavallina, cavallina storna,
che portavi colui che non ritorna”.
che portavi colui che non ritorna”.
La
malinconica atmosfera soccombe all’inquietudine del passaggio che mi aspetta: un
esile e insidiosa pista d’argilla prende il posto del verde tratturo. Le
scarpette con cui sinora ho camminato non sono più idonee, mi fermo sul margine
del pantano per cambiarle con i più pesanti e sicuri scarponi. Malgrado lo
scambio di calzature il cammino rimane insidioso, spesso, sotto le suole, si
crea uno zoccolo di melma che rende ardua la progressione; affondo i bastoncini
sperando di non scivolare, o peggio ancora di sprofondare.
Tratti
ripidissimi e insidiosi si intervallano a brevi e inerbiti, dove posso riprendere
fiato. Una cosa è ammirare i calanchi da una distanza rispettosa, altro è camminarci
sopra, soprattutto dopo le piogge torrentizie. L’illusione che il peggio sia passato
è scacciata via da una vistosa frana di limo (ampia almeno una trentina di
metri) che ha spazzato via il sentiero.
Risalgo
con prudenza sulla vegetazione portata giù dalla calamità, e con prudenza
aggiro la frana, ritrovando il sentiero poco più avanti. Tiro un sospiro di
sollievo, l’aumentare dei sassi sul tracciato è un ottimo segnale, infatti la
malagevolezza della percorribilità diminuisce con l’allontanarmi dal calanco.
Dopo
aver percorso un rado boschetto, la pesta si fa esile ma ben marcata, portandomi
a sfiorare le ripide pareti del Monte della Troia, sbucando su una carrozzabile
sterrata proveniente da oriente.
Lo
sterrato che porta sulla vetta del monte è a ovest, con un’ampia ansa raggiunge
una cascina, da dove posso ammirare gli ultimi 330 metri che mi separano dalla sommità.
La meta è assai vicina, posso disegnare con lo sguardo le ripide pareti nella
roccia che sbucano come scogli dal fitto bosco.
Il
silenzio che finora mi è stato compagno è rotto dai rumori dell’ operosità,
motoseghe, motori a scoppio, e voci umane si uniscono in un’unica sinfonia, evidentemente
è in atto un’intensa attività lavorativa. La strada sterrata prosegue dentro il
fitto bosco, dei segni rossi sugli alberi invitano a percorrere delle
scorciatoie che per la loro ripidezza sono faticose. Incontro e dialogo con
degli operai, mi informano che manca ancora un chilometro alla vetta.
Sopra
un costone roccioso individuo un’antenna e una croce, è la cima! Scoprirò poco dopo
che si tratta di quella panoramica, che è di due metri più bassa di quella
reale. L’ultimo tratto, anche se reso transitabile per le auto è ripidissimo, esso
mi porta nei pressi di alcune casermette circondate da antenne. Trovo l’area
della cima affollata di genere umano, un capo squadra è intento a rimproverare
gli operai, intuisco che urgono i lavori per l’imminente festa che coinvolgerà
il monte. Visito la cima più alta, ma da essa vedo solo la vegetazione che la
ricopre, di seguito mi porto sopra lo sperone roccioso per sentiero panoramico.
Mi sporgo da un esposto salto di almeno 150 metri, supero la grande croce in
metallo che sormonta un piedistallo a gradoni in cemento e adagio lo zaino alla
base, è fatta! Obiettivo raggiunto!
Dal
pulpito panoramico si domina l’intera regione ascolana, peccato per le cupe
nubi incombenti, ma ciò non mi toglie la grande contentezza. Ne approfitto per
recuperare energie, non avrei mai sperato di raggiungere la vetta da cotanta
distanza. Il GPS segna 17,5 chilometri e 1108 metri di dislivello, fatti i
conti ne farò altri 17 per rientrare alla base, per un totale approssimativo di
35, penso: << Niente male Malfa!>> Ultimamente, ho raggiunto un elevato
ritmo di marcia giornaliero, paragonabile alle mitiche marce delle truppe
napoleoniche. Anche stavolta il meteo mi consiglia di affrettare le operazioni
di rientro, dall’alto della rupe studio il tracciato per il ritorno. Dopo la
ripida discesa raggiungo il bivio dove ho lasciato lo sterrato, proseguo a
destra, stavolta per tracciato asfaltato.
Dall’alto,
in lontananza, riesco a individuare i torrioni del centro storico di Ascoli.
Lungo
la strada ho modo di ammirare la cuspide rocciosa dove è posta la croce di
vetta e il cammino effettuato in precedenza tra i calanchi. Sono estasiato ed euforico,
vivo un’avventura entusiasmante e feconda di sorprese. Presso una pieve (incantevole)
giro a destra, attratto da un vecchio borgo che porta il nome di “Polesio”, uno
dei nomi con cui era chiamata in antichità l’elevazione che ho appena
conquistato.
“…Monte
Nero il nome più antico che è giunto fino a noi. Nero come i suoi boschi forse,
così fitti di faggi lecci e castagni da non lasciare entrare la luce, o più
probabilmente per via della parola greca “nerèin” che significa acqua, e la sua
pancia ne è davvero ricca tanto da dare origine a diversi torrenti. E questo
rimase il suo nome, finché venne il giorno in cui Polisia, figlia del prefetto
romano Polimio, non ebbe l’ardire di convertirsi al culto nascente del
Cristianesimo. Leggenda narra che inseguita dai soldati inviati dal padre,
corse verso il monte che miracolosamente si aprì accogliendola nel suo ventre.
Ancora oggi è viva nei dintorni la credenza secondo cui si può ascoltare il
rumore di Polisia che sta lavorando al suo telaio tutto fatto d’oro, come d’oro
è la chioccia e i pulcini che ruzzolano ai suoi piedi. Da allora verrà chiamato
Polesio, conservando impresso nel nome il passaggio dal paganesimo al
Cristianesimo poiché nelle sue viscere miracolose si è consumata la metamorfosi
di una donna pagana in una santa. Cambia il nome ma non la sua capacità di
catalizzare culti e spinte mistiche. Su tutte la vicenda di Meco del Sacco che
proprio alle sue pendici nel XIV sec. fondò gli eremi poi giudicati eretici da
un clero preoccupato dell’incredibile partecipazione popolare che avevano
suscitato. Su questo monte si possono ridurre in macerie gli eremi, così come
accadde per templi e culti antichi, ma non sradicare completamente tante
piccole pratiche popolari che amano mantenere i legami con il paganesimo
lontano: ancora oggi, che con ascendenza tutta cattolica è divenuto il Monte
dell’Ascensione, durante le processioni al monte a qualche anziano piace
gettare un sasso nella voragine che ha inghiottito Polisia esprimendo un
desiderio. O ancora, sul davanzale della finestra che dà verso il monte, c’è
chi, a sera, appoggia un bicchiere d’acqua in cui è stato fatto cadere albume
d’uovo: la mattina successiva saranno le forme che ha preso l’albume a
suggerire gli eventi futuri. Una vela parlerà di un viaggio lontano, una figura
femminile che ricorda la Madonna potrà far sperare in un evento benigno o
miracoloso.” …
Cit. da
Wikipedia.
Mi
avvicino al borgo, esso risulta abbandonato, per via del terremoto del 2016, il
forte sisma ha lasciato profonde ferite, dall’architettura degli edifici intuisco
che la genesi del borgo si perde nella notte dei tempi.
Ritorno
indietro fino alla pieve con una tristezza lacerante, la natura crea e
distrugge, e il sobborgo che ho appena visitato mostra i segni della rovina.
Dalla
piccola chiesetta di campagna scendo per la stradina, passando per il Col Piccione
e avviandomi per la Valle Venere.
Da
dietro un tornante sbuca a sorpresa un simpatico cagnolino, scodinzolando mi fa
le feste, sale con le zampette sulla gamba, non mi esimo di offrirgli le coccole.
Ha lo sguardo intenso e innamorato, simile a quello del mio vecchio Magritte.
Lo invito a seguirmi, e così, come vecchi amici, camminiamo per un lungo tratto
di strada, come viandanti, compari, senza terra e senza patria, insomma da
spiriti liberi.
l’amico
a quattro zampe, che soprannomino “Libero”, mi precede, spesso si volge indietro
come per indicarmi la via. In montagna non mi sono mai sentito solo, e ora lo
sono ancora di meno. Un forte boato preannuncia l’imminente arrivo di un
temporale, proseguo per Ascoli, anche se in cuor mio spero che passi qualcuno in
auto per avere uno strappo. Sopraggiunge un mezzo, mi fermo a conversare con il
conducente, mi chiede se desidero bagnarmi o accettare uno passaggio,
acconsento, anche se a malincuore. Il cagnetto stranamente si è defilato e sparito
nel nulla, come se esso fosse un Dio, un messo inviatomi dalla montagna per
condurmi in salvo.
Converso
con il nuovo amico, è entusiasta di avermi incontrato, percependo nelle mie
sembianze l’essenza dello spirito libero; e io sono felice di aver incontrato
lui, che rappresenta l’ospitalità tanto cara ai popoli.
Conversiamo
di montagna, è competente in materia, lungo il tragitto abbiamo modo di creare
l’amicizia, scambiandoci i numeri di telefono.
Giungo nella
cittadina picena, volgo lo sguardo indietro, in direzione del monte Ascensione,
totalmente avvolto dalle tetre nubi, stranamente più che euforia serbo
tristezza, penso a Libero, il suo sguardo mi è impresso nel cuore.
Così
rientro nell’abitazione, con una altra cima conquistata e una nuova storia da
raccontare.
Il “Forestiero
Nomade”.
Malfa.
Note tecniche.
Localizzazione: Appennino marchigiano-Colli settentrionali
di Ascoli Piceno.
Avvicinamento: Ascoli Piceno,
periferia orientale.
Località di Partenza: Ascoli Piceno, periferia orientale.
Dislivello: 984 m.
Dislivello
complessivo: 1108 m.
Distanza percorsa in Km: 35,5
Quota minima partenza: 124 m.
Quota massima raggiunta: 1100 m.
Tempi di percorrenza escluse le soste: sette ore.
In: Solitaria.
Tipologia Escursione:
Storico-Naturalistica.
Difficoltà: Escursionistica, alcuni trati sui Calanchi per
Escursionisti Esperti( frane e tratti malaggevoli).
Segnavia: Nessuno.
Impegno fisico: Intenso per via della distanza chilometrica.
Preparazione tecnica: Media.
Attrezzature: No.
Croce di vetta: Si.
Ometto di vetta: No.
Libro di vetta: No.
Timbro di vetta: No.
Riferimenti:
1)
Cartografici: IGM della zona.
2)
Bibliografici:
3)
Internet:
Periodo consigliato: Tutto l’anno.
Da evitare da farsi in:
Condizioni del sentiero: Tratti erosi e abbandonati, altri
in via di manutenzione.
Fonti d’acqua: Sporadiche ma presenti lungo il percorso.
Consigliati:
Data: 09 maggio 2018.
Il “Forestiero Nomade”
Malfa