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martedì 21 febbraio 2017

Monte Palon di Lius (1707 metri) da Val Aupa.


                                Monte Palon di Lius (1707 metri) da Val Aupa.

                                                         

                                                 Note tecniche.

Localizzazione: Alpi carniche.

Avvicinamento: Gemona-Moggio Udinese, VAL Aupa fino alla frazione di Saps, rimanendo sulla locale trovare parcheggio 900 metri lungo la strada. A sinistra poco prima un cartello con indicazioni CAI.

Dislivello: 1037 m.

Dislivello complessivo: 1250 m.

Distanza percorsa in Km: 24 km.

Quota minima partenza: 670 m.

Quota massima raggiunta: 1707 m.

In: Solitaria con Magritte.

 Tipologia Escursione: Storico -ambiente

Difficoltà: Escursionistica.

Segnavia: CAI 435a.

Fonti d’acqua: Nessuna.

Attrezzature: Nessuna.

Croce di vetta: Nessuna.

Libro di vetta: Nessuno.

Cartografia consigliata: Tabacco 018.

Periodo consigliato: Tutto L’anno.

Condizioni del sentiero: Ben segnato e marcato.

Data: 18 febbraio 2017.

 

Il “Forestiero Nomade”

Malfa


Relazione:

 La magia e l’avventura sono alla base di ogni escursione che si rispetti, e l’imprevisto è il collante. il meteo per questo fine settimana mette bello, quindi preparo l’attrezzatura per un’escursione all’insegna del sole. Ho in mente un bel monte raggiungibile dalla Val Aupa, sono milleduecento metri di dislivello e un percorso chilometrico e ne ho bisogno per perdermi nel silenzio della montagna.

Questa volta Magritte viene, sarà un piacere condividere una nuova avventura, preferisco vederlo stanco che infelice. La temperatura comincia a innalzarsi, si parte da casa senza avere ghiaccio sui vetri dell’auto. Percorro la strada comunale che da Lestans mi porta a Gemona passando per Valeriano, Pinzano, San Giacomo, Osoppo.  Osservo i piccoli caffè aperti ai primi avventori, sento l’odore del caffè venire fuori da essi, la vita riprende mentre nel cielo si spengono le ultime stelle. Nei pressi di Gemona passo sotto un cavalcavia, nello spiazzo adiacente, presso la pizzeria “Il Fungo”, si danno appuntamento molteplici escursionisti. Passando per lo spiazzo con l’auto ne osservo i movimenti, il trasbordare da un’auto all’altra degli zaini e degli scarponi; chi si incontra per la prima volta e chi per l’ennesima e le montagne laggiù che attendono gli avventori per nuove storie da raccontare e vivere. Dalla super strada osservo le lontane cime: la Grauzaria è ben visibile e mi indica il punto d’arrivo, giunto nei pressi di Moggio imbocco la statale e mi fermo presso il ponte che dà sul Fella. In religioso silenzio ammiro l’alba mentre le ciminiere delle fabbriche nascondono con il loro fumo l’abbazia del piccolo centro. Con una serie di svolte seguendo le indicazioni mi ritrovo fuori dal piccolo centro e all’inizio della Val Aupa. La velocità del mezzo è ridotta, ho un occhio rivolto alla strada e l’altro ai bellissimi monti: a destra ammiro il Vualt, in attesa che dopo la curva spunti lei “la Regina Grauzaria”, magica montagna dalla bellezza stupefacente. Mi fermo più volte a far le foto, anche questa volta un caldo raggio la scalda, sciogliendo le fredde nevi come se il sole volesse fare l’amore con essa. Raggiunta la località di Saps cerco il cartello con l’inizio sentiero che trovo percorrendo altri ottocento metri sulla strada locale. Vado un po’ avanti, inverto la direzione e trovo parcheggio in uno spiazzo presso la curva. La giornata non è fredda, e salendo dalla Val Aupa ho notato che i versanti meridionali dei monti sono quasi sgombri da neve quindi lascio in auto le ciaspole portando al seguito solo gli immancabili ramponi. Mi appronto indossando le ghette che sicuramente mi saranno utili in cima, zaino in spalle e Magritte e sogni al seguito si parte. Il primo tratto del sentiero è ripido, mi inoltro in un bosco di faggi e abeti bianchi. La traccia è ben battuta, la temperatura mite ottiene il suo effetto, sento caldo e decido di fermarmi per alleggerirmi dal pile, guanti e berretto di lana. In pochi secondi assumo l’aspetto classico del Malfa, fasciando la fronte con l’immancabile bandana. Nel frattempo vengo superato da un lupo grigio con lupa al seguito, ci salutiamo augurandoci una buona escursione. Lascio ai due lupi un discreto vantaggio, per avere l’illusione di essere solo. Ripreso il cammino nel bosco raggiungo la cresta, ora la traccia ha la chiara sembianza di una mulattiera e costeggiando la cresta sul versante meridionale raggiunge gli stavoli di “Gran Cuel “. Mi fermo ad ammirare i ruderi, solo un edificio sembra aver resistito al tempo, lo osservo, ci sono ancora i numeri civici: due, tre e quattro, mi avvicino e scruto, osservo una scaletta esterna che porta al piano di sopra e le due finestrelle. Ho la sensazione di sentire delle presenze. Volto lo sguardo all’edificio, dal piano terra una scaletta in legno s’innalza ad un balcone pensile che porta ad un appartamento con due finestre: ad una di esse stanno ancora le tendine appese alle ante, le stesse che vide cento anni fa il sergente Marco Rossi assegnato alla terza compagnia del battaglione “Monte Granero”.

Era il primo aprile del 1917, Marco fu promosso sergente da poco più due anni Cper meriti durante la conquista del monte Nero (inquadrato nell’84 compagnia del mitico Battaglione Exilles), era stato riassegnato insieme al suo eroico comandante il Maggiore Vincenzo Arbarello al battaglione degli alpini” Monte Granero” che guarniva il monte Cullar.  La sede del comando del contingente era sul versante settentrionale, esattamente sulla forcella Turriee. Il sergente spesso scendeva per la mulattiera che collega la forca alla val Aupa, passando per gli stavoli, fino a quando non scorgeva da dietro la finestra ornata di tende un bel volto di donna. Ella aveva capelli neri, occhi scuri e sguardo intenso. Il giovane sottufficiale ne rimase colpito, e da allora ogni scusa fu buona per portare il mulo giù a valle e poter passare presso gli stavoli di Gran Cuel.  Da un boscaiolo che operava presso la frazione seppe il nome della bella dama e la sua storia. Ella di nome faceva Anna Tomat, sposata, con due figli (Giovanni e Maria), il marito Alan Turchet era partito tre anni prima della guerra per l’Argentina (in Patagonia) in cerca di fortuna, promettendo che sarebbe ritornato appena fosse possibile per portare con sé la famiglia. Dopo le prime lettere non aveva più scritto, forse si era rifatto una vita. Anna portava avanti la famiglia lavorando su per i prati, raccogliendo foraggio o aiutando i genitori che vivevano nella casa accanto. Un giorno Marco con la scusa di riprendere il mulo si fermò presso la fontana dove Anna lavava i panni. Poche parole, lui cortese e lei silenziosa, ma gli sguardi svelavano tutto. La passione del soldato colpito dallo volto della bella friulana e il vuoto d’amore riempito dall’ardore del soldato. Lui sicuramente più giovane di lei e anche temerario, da quel giorno passava spesso e se la scorgeva presso la fontana, senza farsi notare le lasciava piccoli pensierini: cioccolata, pane e scatolette di carne. A volte anche quando non la vedeva alla fonte le lasciava fiori di campo raccolti di proposito per lei. Fino a quando la donna piena di desiderio e accecata dalla passione durante l’ennesima sosta del sergente lo invito nella sua casa, gli disse che gli avrebbe lasciato l’uscio aperto di notte e che lei dormiva nella stanza a destra, quella con le tendine. Il giovane emozionato non stava nella pelle, le rispose: << Verrò stanotte.>>. Era il primo aprile del 1917, sembrava uno scherzo del destino. Il sergente giunto al comando chiese il permesso di poter scendere la sera prima che facesse buio giù alla valle, avrebbe dormito nella baracca in basso e così la mattina sarebbe ritornato presto con il mulo e i viveri. Il Maggiore Vincenzo Arbarello, che sapeva della cotta che il sergente aveva con la bella montanara, fece finta di credere alla storiella e acconsenti. Appena il sergente usci fuori dal locale del comando il tenente Botasso fece notare al maggiore che il sottufficiale si era inventato una scusa per amoreggiare. Il maggiore lisciandosi il baffo sorrise, stette un attimo in silenzio e rispose;<< Caro Tenente, in guerra ogni giorno è buono per morire, che questa notte sia buona per amare.>> Lisciandosi di nuovo il baffo si avvicinò alla finestra guardando verso il monte Salinchiet, sicuramente stava pensando alla sua bella, così lontana fisicamente e così vicina nella mente. Quella notte il sergente Marco Rossi lasciò il mulo presso casera Lius, e a piedi raggiunse gli stavoli. Salì piano la scaletta, il cuore gli batteva a mille, trovò l’uscio accostato che apri piano, sentiva il respiro dei ragazzi che veniva dalla stanza a sinistra. Socchiuse l’uscio e apri la porta della stanza a destra, la socchiuse, si spogliò dell’uniforme e si infilò nel letto nuziale. Lo trovò caldo e si accostò al corpo di lei; era vestita, l’ardimentoso soldatino con carezze e baci la spogliò degli abiti e del pudore e per tutta la notte fecero l’amore. Prima del canto del gallo il milite lasciò il talamo d’amore, poggiando un fiore dai petali aperti presso la fonte. Salì alla casera Lius recuperò il mulo e scese giù a valle a Saps per recuperare i viveri per il comando militare. Quel dì il 2 aprile del 1917 era una giornata bellissima, la temperatura era in forte ascesa, dalla Val Aupa era uno spettacolo ammirare la Grauzaria innevata. Marco fischiettando un canto degli alpini risaliva lungo la mulattiera finché avvertì un forte boato diverso dalle solite artiglierie, fragoroso e più lungo, poi silenzio. Un lungo silenzio che aveva messo a tacere le armi. Marco avverti un sinistro presentimento e aizzò il mulo ad avere un andamento più veloce. Dopo un paio di ore giunse presso la forcella che collega il Palon di Lius con il Cullar e una tragica visione gli raggelò il sangue. La bella giornata primaverile e l’innalzamento della temperatura aveva provocato un’enorme valanga che aveva sommerso la forcella Turriee e l’intero comando militare. Per Il maggiore Vincenzo Arbarello, il Tenente Botasso e altri quattordici alpini non ci fu scampo. La sera Marco insieme ad altri alpini scavando nella neve riuscì a penetrare nel comando, dove trovò il corpo del Maggiore e del Tenente intatti, morti a causa di una fuoriuscita del carburo utilizzati per l’illuminazione. Sul tavolino un biglietto scritto a matita con mano tremante: << Credevo di morire diversamente, ho cercato di aiutare il mio tenente Botasso in tutti i modi ma inutilmente. Muoio asfissiato nel nome d’Italia!>> Erano le ultime parole del Maggiore Vincenzo Arbarello. Marco raccolse quel biglietto, lo piegò e lo consegno a un capitano, subito dopo si allontanò dal sito, guardando prima la montagna assassina e lontano verso Il Salinchiet. L’amore della bella friulana e la generosità del Maggiore gli ’avevano salvato la vita. Presto fu inviato sul fronte presso il Carso e successivamente oltre il Piave a combattere fino alla vittoria finale. Congedato, ritornò a casa e volle dimenticare la guerra. Si sposò, ebbe due figli, non lasciò la moglie per la Patagonia, ma visse felice, ebbe dei nipotini, finché un giorno nella sua memoria riapparvero i volti del Maggiore Arbarello e della bella Friulana. Volle rivedere quella terra e la Val Aupa. Ritornò con la sua famiglia, ripercorse il sentiero fino agli stavoli che trovò abbandonati. Rivide la scaletta in legno e la finestra con le tendine ancora lì, e come in un sogno gli apparve il volto di Anna dietro di esse. Si fermò alla fonte a giocare con la nipotina, mentre sopraggiunse un montanaro. Gli chiese cortesemente che fine aveva fatto la gente che abitava gli stavoli. Il montanaro gli rispose che i vecchi ora erano morti ma subito dopo la guerra si erano trasferiti giù a Moggio Udinese, mentre la Anna con i figli aveva raggiunto il marito in Patagonia. Un sospiro di sollievo colse l’animo di Marco. Egli non aveva mai raccontato per intero la storia alla moglie, le aveva solo detto che si era salvato perché il mulo si era ferito ed era rimasto la notte tra il primo e il due aprile a Saps. Rientrava con la famiglia a valle, ma prima volle dare un ultimo sguardo alla scala in legno, alla finestra con le tendine e al volto della donna che amandolo lo salvò.

Finito di fantasticare riprendo il cammino seguendo la traccia che aggira la vecchia abitazione, alle sue spalle trovo una vecchia fonte, il sentiero percorrendo il crinale si avvia verso occidente passando sotto dei vecchi faggi dalle forme antropomorfe, li saluto, ai miei occhi mi appaiono come vecchi testimoni di un passato che si può ora solo leggere nel loro disegno. Il sentiero incrocia più avanti una carrareccia innevata, la seguo per pochi metri, preferendo uscire fuori da essa attratto da un sentiero parallelo non segnato.  Convinto di guadagnare tempo e quota percorro il vecchio troi notando subito che si innalza rispetto alla carrareccia, spero di collegarmi più a monte con il sentiero ufficiale. La traccia presto si perde nella neve, ritornare indietro mi farebbe perdere tempo, decido di seguire l’istinto, portandomi in cresta. Percorro in libera pendii scoscesi e traversi, il tutto mi dà quella sensazione di libertà.  Mi piace arrampicarmi di istinto e seguire i raggi del sole tra le fronde degli alberi, il lupo che alberga nel mio animo viene fuori. Presto raggiungo la cresta adombrata dai numerosi abeti bianchi, tra essi orientandomi a occidente spero di sbucare sulla carrareccia, è quello che avviene uscendo in un ampio prato ricoperto di neve e subito dopo incrocio la carrozzabile con impronte fresche. Vorrei gridare Eureka, e per fortuna non l’ho fatto.

Erroneamente l’istinto mi porta a seguire il tracciato a destra, e perdo l’orientamento convinto di essere nel giusto, mi porto avanti a fatica, la neve è profonda, seguo le fresche tracce convinto che siano dei due lupi incontrati in precedenza. Ma qualcosa non mi convince, do un’occhiata al GPS, sono fuori traccia e fuori quota, non riesco a capire dove è l’inghippo. Percorro la carrareccia su e giù almeno un paio di volte per alcuni chilometri, dando uno sguardo ai monti circostanti mi rendo conto che mi sto allontanando dal monte Cullar, spostandomi verso la valle a settentrione. Stanco e demoralizzato dopo due ore di girare a vuoto decido di rientrare e raggiungo uno slargo dove è posta una panca. Quell’andare su e giù oltre a snervarmi mi ha tolto energie, con la neve dove sprofondo fino alle ginocchia tutto diventa più difficile. Libero la panca dalla neve e mi siedo, mettendo a terra lo zaino. Ho fame, apro la borsa viveri, e con l’amico quadrupede ci nutriamo. Sarà il refrigerio sopraggiunto ai glutei o che mi sto nutrendo che le idee mi si schiariscono. Noto ai bordi dello slargo due fungi artificiali creati con tronchi d’albero e pietre, e dalla parte opposta una striscia di impronte umane sulla neve. Mi viene un dubbio, do un’occhiata al GPS che mi materializza il punto corrispondente alla traccia che sale al Cullar, ho ritrovato il sentiero perduto. Do un’occhiata all’ora, è tardi, sono convinto di rientrare a casa senza aver raggiunto l’obbiettivo. Finito di rifocillarmi mi preparo per il rientro, osservo alla mia sinistra la traccia che porta in basso fuori dalla carreggiata al sentiero che rientra nella val Aupa, mentre dal lato opposto il sentiero prosegue per la forcella tra il Palon di Lius e Il Cullar. Sto per abbandonare l’impresa, mesto e deluso quando sento dei passi e vedo sopraggiungere i due lupi incontrati in precedenza. Ci salutiamo, spiego a loro la causa del mio contrattempo. Il lupo grigio mi ascolta con interesse e mi consiglia di visitare la casera Palis di Lius che dista un’ora dal punto in cui ci troviamo e se avessi voglia potrei proseguire per la cima del Palon di Lius. Di comune accordo riteniamo che il Cullar è troppo faticoso e pericoloso per via della neve alta e farinosa che si è accumulata sul versante settentrionale. Ricaricate le energie e temprato nello spirito riprendo l’escursione, ma non verso casa, ma verso la meta consigliatami da Lupo Grigio. Mi congedo dai lupi con un arrivederci e mi avvio per la nuova meta. Il sentiero contrariamente alla carrareccia è quasi privo di neve nel primo tratto e procede con dolce pendenza da oriente a occidente, ricalcando sicuramente la vecchia mulattiera bellica e attraversando tra i faggi il versante meridionale del Palon di Luis. Superata una panca ricavata da un tronco d’albero raggiungo un’ampia distesa prativa dominata dalla casera di Palis di Luis. La neve a causa dell’assenza di alberi è più corposa e profonda. Passo vicino all’edificio dal caratteristico tetto color verde ma non mi fermo, rinviando la visita dell’interno al ritorno. Seguo le orme di chi mi ha preceduto notando che non sono più di due escursionisti ma di uno solo, evidentemente e anche chiaramente dalla grandezza dell’impronta il lupo grigio ha lasciato la lupa alla casera e ha proseguito da solo per la cima.  La vetta del Palon è in bella vista dietro la casera, verrebbe voglia di raggiungerla direttamente, ma la traccia disegna un lungo sentiero che in diagonale con una lunga serie di tornanti solca il profilo meridionale del monte. La neve copre tutto il versante ma sul sentiero non supera i venti centimetri. Senza troppi patemi mi avvio alla forcella, che ben individuo dal sentiero insieme al vicino monte Cullar. Arrivato sotto la forcella il sentiero si biforca: a destra si avvia per il versante settentrionale del monte Cullar, a sinistra per il Palon di Lius. Seguo quest’ultima traccia incamminandomi su una mulattiera di guerra ben definita anche se coperta di neve. Dopo un centinaio di metri mi sposto sulla cresta dove aumentano le difficoltà a causa della profondità e della consistenza del manto nevoso assai farinoso, in alcuni punti sprofondo anche di mezzo metro, per raggiungere la cima ci metto un’eternità.  Raggiunta l’elevazione che precede di pochi metri la vetta più alta lascio Magritte, facendolo riposare insieme allo zaino, avviandomi da solo per gli ultimi metri sulla cima principale. A causa del manto nevoso non trovo nessun ometto, solo un esteso manto di neve proteso verso l’infinito. È innegabile che sono incantato dalla bellezza del paesaggio, con un colpo d’occhio riesco ad ammirare a meridione tutte le belle cime che dominano la val d’Aupa e a settentrione le alpi carniche dal monte Cavallo allo Zermula. Il paesaggio è da mozzafiato, ne è valsa la pena di affrontare tanta fatica. Il lupo ha prevalso sulla ragione, anche le singole impronte del lupo grigio mi hanno fatto riflettere. Il lupo Grigio ha sentito l’esigenza come me di raggiungere il pulpito più alto. Quell’eterno desiderio dell’uomo di raggiungere quell’entità superiore, per sentirsi un Dio. Da tempo i filosofi indagano su questo mistero, la montagna e il suo simbolo ” Il triangolo” ne sono un chiaro esempio di questa “eterna ricerca”. Con un ultimo sguardo mi congedo dal monte, ammirando l’infinito, ricalcando le profonde orme recupero Magritte. Rientrando noto i resti di manufatti bellici sotto la cresta. Riconquistata la forcella scendo rapidamente fino alla casera Palis di Lius, stavolta per effettuare una visita di cortesia. L’interno è luminoso e ospitale, munito di tutti i confort compresi tre posti letto al piano superiore. La voglia matta di rimanere a dormire dentro c’è ma non mi sono attrezzato per tale evento. Non trovo nessun libro da firmare, quindi chiudo le imposte della casera e mi avvio al ritorno, sempre rapidamente camminando velocemente sulla soffice neve. In poco tempo raggiungo il punto di partenza presso la panca dove avevo incontrato i due lupi e seguendo le tracce mi incanalo lungo il sentiero 450 a, che non avevo percorso all’andata. Lungo la discesa passo dai ruderi della casera Lius, affascinante anche se ridotta male, la supero velocemente immettendomi per poco sulla carrareccia dove noto la scritta” Ti Amo” sulla neve, sicuramente opera di uno dei due lupi incontrati in precedenza. Il percorso sullo sterrato innevato è breve, presto riprendo il sentiero nel bosco raggiugendo gli stavoli di “Gran Cuel”, un ultimo sguardo alla piccola finestra con le tendine e giù per il bosco fino a raggiungere la strada locale con ancora un buon margine di luce. Approntandomi al rientro mi fermo ad osservare un mezzo in sosta sulla strada locale, pochi metri prima della mia auto. Saluto il conducente che mi risponde chiamandomi per nome, ferma il mezzo e scende, ci salutiamo e istauriamo una piacevole conversazione. L’amico abita a Dordolla, mi apprezza per alcune mie foto pubblicate su un gruppo di Facebook, gli confesso che la Val Aupa sta diventando la mia seconda casa, e che avrei il piacere un giorno di bere qualcosa a Dordolla insieme a lui e altri amici. Ci salutiamo con un forte abbraccio e con un arrivederci. Rientro a valle e poi nella pianura friulana con un sogno realizzato e altri sogni da realizzare.

Il vostro “Forestiero Nomade”

Malfa.
































































































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