Monte Toc 1921 m. e
Cima Mora 1938 m. dalla diga del Vajont.
18 giugno 2016
Note tecniche.
Localizzazione: Alpi Orientali-Prealpi Venete. Gruppo del
Col Nudo –Cavallo.
Avvicinamento: Montereale di Val
Cellino-Barcis-Cimolais-Erto- Diramazione per Pineda – Carrozzabile asfaltata-
Parcheggio su uno slargo ghiaioso (tabelle per casera Vasei- monte Toc)
Punto di Partenza: Frana del monte Toc (quota 820 m).
Dislivello: 1108 m.
Dislivello complessivo: 1242 m.
Distanza percorsa in Km: 13 km.
Quota minima partenza: 820 m.
Quota massima raggiunta: 1938 m.
Difficoltà: Escursionistico fino alla casera Vasei- Per
escursionisti esperti fino alle cime.
Segnavia: CAI- ometti- bolli rossi.
Tempo percorrenza totale escludendo le soste: 5.5 ore (3, 5
in salita- 2 in discesa).
Fonti d’acqua: Nessuna.
Attrezzature: Nessuna.
Cartografia consigliata. Tabacco 021- Pianta IGM del Friuli.
1: 25000.
Periodo consigliato: maggio – novembre.
Condizioni del sentiero: Ben Marcato e ben segnato.
Data: 18 giugno 2016.
Relazione.
Relazione.
Finalmente
giunge il sabato: la sveglia suona prestissimo, apro la finestra che guarda a nord,
le montagne sono sgombre da nuvole. Bene! si va. Colazione veloce e si parte, destinazione la
valle del Vajont. I chilometri che mi separano dalla meta sono pura poesia,
percorro la statale avendo fisso lo sguardo sulle cime. Superata la località di
Montereale dopo una serie di gallerie giungo nella valle del Cellino.
Stranamente il piccolo borgo di Barcis non è avvolto dalla nebbia mattutina e
con gioia scruto i monti che lo circondano, fermandomi per alcuni istanti ad
ammirare le azzurre acque del lago. La maestosa mole del Crep Nudo è di un
bianco lucente, percorro la valle con velocità moderata, estasiato da cotanta
bellezza. Le acque del Cellino scorrono lentamente, il loro suono è un preludio
al sogno vivrò. Un paio di curve dopo la località di Cellino vengo abbagliato
dai luminosi raggi del sole nascente. La Val Cellina mostra i suoi gioielli: il
Duranno, cima dei Preti, monte Lodina, che spettacolo! Mi incanta tutto questo
splendore. Accosto l’auto, scendo, mi sposto sul ciglio della strada, rimango immobile,
sublimato, emozionato. Qualcosa o qualcuno mi sussurra di lasciare il mio
essere sul posto, sul quel masso immaginario alla mia destra. Provo a
ripartire, ma sempre quel qualcuno o quel qualcosa mi invitano a spogliarmi di
tutto. Da ora procederò nudo, spogliato dei pensieri, soprattutto quelli
negativi e assaporerò quell’attimo di felicità, sì, la libertà che tutti cercano
invano. Spogliato di tutto e libero nella mente procedo verso Cimolais,
ammirando le montagne. Dopo il passo di Santo Osvaldo ammiro dall’alto la valle
del Vajont avvolta dalle nebbie, che magia, procedo con i fari antinebbia,
l’umidità riflette la luce solare creando una situazione che definire
straordinaria e dir poco. Superata la località di Erto procedo verso la diga. Imboccando
la diramazione per la località Pineda. Una carrozzabile asfaltata mi porta dopo
pochi metri al punto di sosta, che si presenta come un ampio spiazzo sovrastante
resti della frana, e munito di tabelle indicatrici. Mi fermo a riflettere su
una data, l’immane tragedia che il 9 ottobre 1963 sconvolse i borghi della
valle, la località veneta di Longarone, l’Italia e il mondo intero. Mi preparo,
zaino in spalle e Magritte al fianco si parte per la nuova avventura. Il monte
Toc, meta dell’escursione mi è difronte, illuminato dal sole, bellissimo
malgrado la brutta ferita. Non guardo lo squarcio provocato dalla frana, ma le
due cime, lassù. Voglio amore oggi, niente dolore, solo gioia. Un bel larice
solitario mi indica la direzione, proseguo a occidente lungo una carreggiata
seguendo i chiari cartelli per la casera Vasei e monte Toc. (sentiero 907). Abbandono
la carrozzabile seguendo un marcato sentiero che con moderata pendenza risale
il panoramico fianco del monte. Lungo il tragitto ammiro l’abitato di Casso e
la mole del Monte Borgà. Superando a oriente la sottostante diga raggiungo il
crinale del monte Ranz. Mi fermo sul panoramico pulpito, do uno sguardo alla
località di Longarone e alla valle del Piave. Il percorso ora piega a meridione
risalendo il boscoso ed erto pendio. Risalgo cinquecento metri di dislivello
immerso nel bosco di faggio. Nella lunga e monotona salita mi fanno compagnia tanti
pensieri astratti, distratto solo da vecchi faggi antropomorfi. Vengo avvolto
dal sogno, ed è tale l’intensità che solo gli scarponi ricorderanno al ritorno
il tragitto. Dopo un’ora di cammino il bosco si apre all’azzurro cielo, tra le
fronde scorgo le pareti rocciose della Croda Vasei, passo aderente alle pareti
notando un paio di cavità nella roccia. La vegetazione si fa più rada e i faggi
lasciano il posto ai larici. Cambia anche la pendenza del sentiero, più dolce e
tortuosa, dopo pochi minuti raggiungo la caratteristica casera Vasei. Piccola
capanna in legno, posta come gendarme sulla valle veneta. Il suo aspetto è
romantico, giro intorno ad essa, non oso entrarci per non spezzarne l’incanto.
Ritorno indietro di alcuni passi e imbocco una labile traccia segnata da
ometti, i segni CAI si arrestano alla casera.
Il sentiero è ben battuto, assumendo una forma selvaggia. Gli ometti
sono di forma originale, ne fotografo alcuni costruiti sui rami secchi dei
larici, tutto mi conferma che gli spiriti liberi hanno uno spiccato senso
artistico. Il sentiero attraversando larici e mughi raggiunge la base di un
vallone la cui parte centrale è solcata da un secco impluvio che lo risale fino
alla sella. Seguo la traccia alla sua destra, per poi risalire il canalone tra
balze erbose e roccette fino alla sella che divide Cima Mora (a sinistra) dal
Monte Toc (a destra). Il mio dubbio sin dalla partenza era se salire per prima
la cima più alta cioè la cima Mora o la più nota monte Toc. Ora devo sciogliere
il dilemma, do la precedenza alla vicina cima Mora. Il sentiero ben marcato procede
addentrandosi tra i mughi a fil di cresta, sfiorando in un tratto l’esposto
ciglio sui paurosi dirupi meridionali. In breve raggiungo l’erbosa vetta (quota
1938 m.), materializzata da un cumulo di pietre e una piccola croce metallica.
Zaino a terra, la fatica cede posto all’emozione. Meraviglioso pulpito sui
monti dell’Alpago: il Col nudo è avvolto dal classico nuvolone, mentre a meridione
il regale monte Borgà è illuminato dal sole e i suoi prati sommitali mi risvegliano
i ricordi di una meravigliosa avventura. Le minacciose nuvole sono lontane,
questo mi dà tempo per sollazzarmi e osservare la prossima meta che dalla vetta
mi appare dolce. Ripreso lo zaino dopo aver dissetato il fedele compagno riprendo
il cammino verso la seconda meta. Raggiunto il punto dove ho deviato (la sella)
proseguo a occidente per marcata traccia evidenziata da numerosi ometti.
Risalgo un prato popolato da una bellissima fioritura di botton d’oro,
sfiorando a sinistra un sinistro dirupo. Raggiunta l’ante-cima (corposo ometto
e rami secchi di larici) do uno sguardo al proseguo, la cima è più in là. Tra i
mughi scorgo la traccia che scendendo di alcuni metri a meridione raggiunge la
forcellina detritica e successivamente tra rocce e balze erbose la piccolissima
cima del Toc (quota 1921) che domina la valle del Piave.
La croce di vetta è commovente, due piccoli
rametti legati con lacci, ma lo spettacolo è grandioso, degno di una grande monte.
Nessun libro di vetta come sulla cima precedente. Dopo alcuni minuti,
ritorniamo indietro, ci spostiamo sull’ante-cima, qui effettuiamo una vera e
sostanziale sosta. È il momento più atteso da Magritte, estraggo fuori dallo
zaino la borsa con i viveri. Ammirando il meraviglioso spettacolo, ci nutriamo,
riprendendo le forze e saziando lo spirito. L’ante-cima è l’ideale punto di
osservazione, sospesi tra le due cime le ammiriamo entrambe, deliziandoci anche
delle lontane Alpi. Scrivo al plurale, perché sono convinto che Magritte gode anche
di questi momenti, e se non fosse così, amo crederlo. Pausa finita, è giunta
l’ora triste del ritorno, che in egual modo da qualsiasi cima scendo mi fa
stare male in egual modo. Ripreso lo zaino, con calma, ripercorro il sentiero
dell’andata, lasciandomi alle spalle le due cime e pensando che questa montagna
da oggi per me non sarà solo il triste ricordo di una tragedia di 53 anni fa.
Ma un bel monte che gli uomini con le loro imperizie hanno reso carnefice, un
monito alla stupidità del genere umano.
Il vostro
“Forestiero Nomade”.
Malfa.
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