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martedì 21 giugno 2016

Cima Mora 1938 m. e Monte Toc 1921 m. dalla diga del Vajont.

 
Monte Toc 1921 m. e Cima Mora 1938 m. dalla diga del Vajont.

18 giugno 2016

Note tecniche.

Localizzazione: Alpi Orientali-Prealpi Venete. Gruppo del Col Nudo –Cavallo.

Avvicinamento: Montereale di Val Cellino-Barcis-Cimolais-Erto- Diramazione per Pineda – Carrozzabile asfaltata- Parcheggio su uno slargo ghiaioso (tabelle per casera Vasei- monte Toc)

Punto di Partenza: Frana del monte Toc (quota 820 m).

Dislivello: 1108 m.

Dislivello complessivo: 1242 m.

Distanza percorsa in Km: 13 km.

Quota minima partenza: 820 m.

Quota massima raggiunta: 1938 m.

Difficoltà: Escursionistico fino alla casera Vasei- Per escursionisti esperti fino alle cime.

Segnavia: CAI- ometti- bolli rossi.

Tempo percorrenza totale escludendo le soste: 5.5 ore (3, 5 in salita- 2 in discesa).

Fonti d’acqua: Nessuna.

Attrezzature: Nessuna.

Cartografia consigliata. Tabacco 021- Pianta IGM del Friuli. 1: 25000.

Periodo consigliato: maggio – novembre.

Condizioni del sentiero: Ben Marcato e ben segnato.

Data: 18 giugno 2016.

Relazione.

 
 

 
Relazione.

Finalmente giunge il sabato: la sveglia suona prestissimo, apro la finestra che guarda a nord, le montagne sono sgombre da nuvole. Bene! si va.  Colazione veloce e si parte, destinazione la valle del Vajont. I chilometri che mi separano dalla meta sono pura poesia, percorro la statale avendo fisso lo sguardo sulle cime. Superata la località di Montereale dopo una serie di gallerie giungo nella valle del Cellino. Stranamente il piccolo borgo di Barcis non è avvolto dalla nebbia mattutina e con gioia scruto i monti che lo circondano, fermandomi per alcuni istanti ad ammirare le azzurre acque del lago. La maestosa mole del Crep Nudo è di un bianco lucente, percorro la valle con velocità moderata, estasiato da cotanta bellezza. Le acque del Cellino scorrono lentamente, il loro suono è un preludio al sogno vivrò. Un paio di curve dopo la località di Cellino vengo abbagliato dai luminosi raggi del sole nascente. La Val Cellina mostra i suoi gioielli: il Duranno, cima dei Preti, monte Lodina, che spettacolo! Mi incanta tutto questo splendore. Accosto l’auto, scendo, mi sposto sul ciglio della strada, rimango immobile, sublimato, emozionato. Qualcosa o qualcuno mi sussurra di lasciare il mio essere sul posto, sul quel masso immaginario alla mia destra. Provo a ripartire, ma sempre quel qualcuno o quel qualcosa mi invitano a spogliarmi di tutto. Da ora procederò nudo, spogliato dei pensieri, soprattutto quelli negativi e assaporerò quell’attimo di felicità, sì, la libertà che tutti cercano invano. Spogliato di tutto e libero nella mente procedo verso Cimolais, ammirando le montagne. Dopo il passo di Santo Osvaldo ammiro dall’alto la valle del Vajont avvolta dalle nebbie, che magia, procedo con i fari antinebbia, l’umidità riflette la luce solare creando una situazione che definire straordinaria e dir poco. Superata la località di Erto procedo verso la diga. Imboccando la diramazione per la località Pineda. Una carrozzabile asfaltata mi porta dopo pochi metri al punto di sosta, che si presenta come un ampio spiazzo sovrastante resti della frana, e munito di tabelle indicatrici. Mi fermo a riflettere su una data, l’immane tragedia che il 9 ottobre 1963 sconvolse i borghi della valle, la località veneta di Longarone, l’Italia e il mondo intero. Mi preparo, zaino in spalle e Magritte al fianco si parte per la nuova avventura. Il monte Toc, meta dell’escursione mi è difronte, illuminato dal sole, bellissimo malgrado la brutta ferita. Non guardo lo squarcio provocato dalla frana, ma le due cime, lassù. Voglio amore oggi, niente dolore, solo gioia. Un bel larice solitario mi indica la direzione, proseguo a occidente lungo una carreggiata seguendo i chiari cartelli per la casera Vasei e monte Toc. (sentiero 907). Abbandono la carrozzabile seguendo un marcato sentiero che con moderata pendenza risale il panoramico fianco del monte. Lungo il tragitto ammiro l’abitato di Casso e la mole del Monte Borgà. Superando a oriente la sottostante diga raggiungo il crinale del monte Ranz. Mi fermo sul panoramico pulpito, do uno sguardo alla località di Longarone e alla valle del Piave. Il percorso ora piega a meridione risalendo il boscoso ed erto pendio. Risalgo cinquecento metri di dislivello immerso nel bosco di faggio. Nella lunga e monotona salita mi fanno compagnia tanti pensieri astratti, distratto solo da vecchi faggi antropomorfi. Vengo avvolto dal sogno, ed è tale l’intensità che solo gli scarponi ricorderanno al ritorno il tragitto. Dopo un’ora di cammino il bosco si apre all’azzurro cielo, tra le fronde scorgo le pareti rocciose della Croda Vasei, passo aderente alle pareti notando un paio di cavità nella roccia. La vegetazione si fa più rada e i faggi lasciano il posto ai larici. Cambia anche la pendenza del sentiero, più dolce e tortuosa, dopo pochi minuti raggiungo la caratteristica casera Vasei. Piccola capanna in legno, posta come gendarme sulla valle veneta. Il suo aspetto è romantico, giro intorno ad essa, non oso entrarci per non spezzarne l’incanto. Ritorno indietro di alcuni passi e imbocco una labile traccia segnata da ometti, i segni CAI si arrestano alla casera.  Il sentiero è ben battuto, assumendo una forma selvaggia. Gli ometti sono di forma originale, ne fotografo alcuni costruiti sui rami secchi dei larici, tutto mi conferma che gli spiriti liberi hanno uno spiccato senso artistico. Il sentiero attraversando larici e mughi raggiunge la base di un vallone la cui parte centrale è solcata da un secco impluvio che lo risale fino alla sella. Seguo la traccia alla sua destra, per poi risalire il canalone tra balze erbose e roccette fino alla sella che divide Cima Mora (a sinistra) dal Monte Toc (a destra). Il mio dubbio sin dalla partenza era se salire per prima la cima più alta cioè la cima Mora o la più nota monte Toc. Ora devo sciogliere il dilemma, do la precedenza alla vicina cima Mora. Il sentiero ben marcato procede addentrandosi tra i mughi a fil di cresta, sfiorando in un tratto l’esposto ciglio sui paurosi dirupi meridionali. In breve raggiungo l’erbosa vetta (quota 1938 m.), materializzata da un cumulo di pietre e una piccola croce metallica. Zaino a terra, la fatica cede posto all’emozione. Meraviglioso pulpito sui monti dell’Alpago: il Col nudo è avvolto dal classico nuvolone, mentre a meridione il regale monte Borgà è illuminato dal sole e i suoi prati sommitali mi risvegliano i ricordi di una meravigliosa avventura. Le minacciose nuvole sono lontane, questo mi dà tempo per sollazzarmi e osservare la prossima meta che dalla vetta mi appare dolce. Ripreso lo zaino dopo aver dissetato il fedele compagno riprendo il cammino verso la seconda meta. Raggiunto il punto dove ho deviato (la sella) proseguo a occidente per marcata traccia evidenziata da numerosi ometti. Risalgo un prato popolato da una bellissima fioritura di botton d’oro, sfiorando a sinistra un sinistro dirupo. Raggiunta l’ante-cima (corposo ometto e rami secchi di larici) do uno sguardo al proseguo, la cima è più in là. Tra i mughi scorgo la traccia che scendendo di alcuni metri a meridione raggiunge la forcellina detritica e successivamente tra rocce e balze erbose la piccolissima cima del Toc (quota 1921) che domina la valle del Piave.

 La croce di vetta è commovente, due piccoli rametti legati con lacci, ma lo spettacolo è grandioso, degno di una grande monte. Nessun libro di vetta come sulla cima precedente. Dopo alcuni minuti, ritorniamo indietro, ci spostiamo sull’ante-cima, qui effettuiamo una vera e sostanziale sosta. È il momento più atteso da Magritte, estraggo fuori dallo zaino la borsa con i viveri. Ammirando il meraviglioso spettacolo, ci nutriamo, riprendendo le forze e saziando lo spirito. L’ante-cima è l’ideale punto di osservazione, sospesi tra le due cime le ammiriamo entrambe, deliziandoci anche delle lontane Alpi. Scrivo al plurale, perché sono convinto che Magritte gode anche di questi momenti, e se non fosse così, amo crederlo. Pausa finita, è giunta l’ora triste del ritorno, che in egual modo da qualsiasi cima scendo mi fa stare male in egual modo. Ripreso lo zaino, con calma, ripercorro il sentiero dell’andata, lasciandomi alle spalle le due cime e pensando che questa montagna da oggi per me non sarà solo il triste ricordo di una tragedia di 53 anni fa. Ma un bel monte che gli uomini con le loro imperizie hanno reso carnefice, un monito alla stupidità del genere umano.

Il vostro “Forestiero Nomade”.

Malfa.

 

 




































































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